Marco Tullio Cicerone proveniva da una famiglia che si
fregiava dello status di equestre. Non avendo alcun legame con l’oligarchia
senatoriale romana, poteva considerarsi un homo novus[1], cioè un uomo che non
aveva ricoperto cariche pubbliche.
Il grande successo di Cicerone e della sua eloquenza
illuminata, lo portò ad occupare tutti i livelli previsti dal cursus honorum e,
motivo di orgoglio, al minimo dell’età prevista: fu quindi console a 42 anni.
La sua capacità retorica unita a un innato buonsenso, lo
avevano inizialmente reso avverso all'oligarchia portandolo su una posizione di
centro. Purtuttavia avversò con pari fermezza nell'anno del suo consolato (63
a. C.), anche quelle proposte a cura dei popolari, che riteneva eccessive,
opponendosi così (Plut., Cic., 12,2) alla legge agraria (De lege agraria) del
tribuno Servilio Rullo, che intendeva distribuire terre ai veterani di Pompeo.
In questo periodo difese il senatore Gaio Rabirio dall’accusa di alto
tradimento contro lo stato, per l’episodio dell’uccisione di Saturnino
trentacinque anni prima.
Catilina si dimostrò il più pericoloso degli avversari
politici, tra l’altro sostenuto non si sa con quanta determinazione da Crasso e
da Cesare, che aveva vinto per pochi voti di scarto le elezioni a console.
Dopodiché Crasso, quando la congiura di Catilina venne alla luce, rivide
immediatamente il suo appoggio portandosi su posizioni di “pentito” mentre
Cesare stranamente passò indenne quel momento critico. Le trame del cospiratore
furono comunque svelate, come quella di giungere al potere attraverso la strada
della congiura, compiendo un eccidio a Roma e una insurrezione in Toscana.
Il console venuto a conoscenza di questa trama, denunciò
Catilina davanti al senato riunito nel tempio di Giove Statore, pronunciando il
7 novembre del 63 a.C. la prima delle famose arringhe (Catilinarie).
L’accusato, smascherato, fuggì subito in Toscana. Saltò fuori, però, che i
congiurati avevano contattato gli Allobrogi, antico e bellicoso popolo della
Gallia, affinchè attaccassero i Romani alle spalle durante l’insurrezione
nell’Urbe. Cicerone raccolse le prove che gli servivano, grazie anche a un
potere accresciuto dall’emergenza civile, e fece giustiziare i congiurati
organizzando poi una campagna militare per sconfiggere le truppe di Catilina a
Pistoia.
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Catilina al senato. |
Nell’Urbe i congiurati che tramavano nell’ombra furono
smascherati e, nonostante il parere contrario di Cesare, furono giustiziati
senza che gli venisse concessa la provocatio ad populum, ovvero l’appello al
popolo per sperare in una pena detentiva e non capitale. Questo episodio costò,
su proposta di Clodio, l’esilio di Cicerone perché come magistrato aveva fatto
giustiziare anche gli aristocratici romani coinvolti nella congiura di
Catilina, senza consentir loro di accedere all’istituto della provocatio ad
populum, magari come extrema ratio per scampare alla pena di morte (58 a.C.).
Cicerone supplicò Pompeo per evitare l’esilio, ma
quest’ultimo gli riferì di non poterlo graziare perché non voleva mettersi
contro il volere di Cesare. L’Arpinate decise quindi di lasciare Roma, non
prima di aver portato una piccola statua domestica di Minerva al Campidoglio,
ponendola nel tempio di Giove, con la speranza di essere con quel simbolo
ricordato.
Tornò dall'esilio un anno dopo, in un contesto
caratterizzato dallo scontro politico tra Cesare e Pompeo sui temi ad oggetto
l’esercizio del potere: in tale situazione si crearono due fazioni capeggiate
per i popolari dal tribuno della plebe Clodio, favorevole a Cesare, e per gli
ottimati dal tribuno Milone.
Clodio nutriva una profonda avversione verso Cicerone, non
perdendo occasione per attaccarlo nelle assemblee pubbliche. Tra l’altro
bisogna dire che Clodio precedentemente fu un alleato nella lotta contro
Catilina. Probabilmente l’astio tra i due sorse in seguito allo scandalo della
Bona Dea, quando Cicerone demolì l’alibi di Clodio processato per essersi
intrufolato scandalosamente sotto mentite spoglie femminili nella casa di
Cesare (62 a. C.), col fine di intrattenersi con la moglie di questi Pompea.
Giulio Cesare non si costituì in giudizio contro Clodio, dichiarando comunque
Pompea (opportunisticamente) innocente, e purtuttavia la ripudiò.
Cicerone dopo l’esilio perse un po’ di presenzialismo
politico pur avendo ancora molta presa sul pubblico. In senato ricatturò
l’attenzione con la De provinciis consularibus (56 a.C.), in cui l’Arpinate
reclamava per Cesare, proconsole, la riconferma, contrariamente alle regole,
dell’imperium nelle Gallie. Una posizione che il famoso oratore pare abbia
assunto prima ancora delle esigenze militari, per tentare di tenere lontano
dall’Urbe il futuro dittatore di Roma. Intanto, provò invano di persuadere gli
ottimati (aristocratici conservatori), a non inimicarsi Pompeo al punto da
indurlo ad accordarsi con Cesare. Con l'orazione De provinciis consularibus,
Cicerone tentò di dimostrare, con alcuni attenti passaggi oratori, di non
essere nemico di Cesare e di giustificare la sua richiesta di proroga del
comando militare con le necessità dell’impero.
Un periodo di riflessione consentì all’Arpinate la stesura
del De oratore e il De republica. La prima opera, scritta tra il 55 e il 54
a.C., è composta da tre libri che espongono le caratteristiche e le tecniche
per essere un buon oratore, onde eccellere nell’attività forense ma anche in
politica.
Il De re publica, opera in sei libri quasi totalmente
perduti, fu scritta tra il 54 e il 51 a.C., si colloca nel periodo di forte
crisi della res publica, ovvero quando i triunviri si erano impadroniti del
potere e Cicerone era stato estromesso dalla vita pubblica. Argomento
fondamentale oltre alla politica è quello filosofico, già trattato ampiamente
da Platone e Aristotele. Presentato sotto forma di dialogo, nel De re publica,
Cicerone esamina i vari assetti di governo monarchico, aristocratico e
democratico, nonché i loro opposti cioè la tirannide, l’oligarchia e
l’oclocrazia.
Nel sesto libro descrive il politico ideale, il princeps,
che svolge un ruolo a dir poco provvidenziale, elogiando nello specifico Publio
Cornelio Scipione Emiliano (185-129 a.C.), ricordato come modello per
eccellenza di princeps, il cui fare diceva, era adeguato a un uomo di governo.
Negli stessi anni, avveniva l’uccisione di Clodio da parte
di Milone e il conseguente processo; Cicerone assunse la difesa di Milone
pronunciando l’orazione Pro Milone. Nel
51 a.C. fu mandato proconsole in Cilicia (Turchia meridionale), e quando fu di
ritorno capì che di lì a poco ci sarebbe stata una guerra civile. In seguito
alla battaglia di Farsalo del 48 a.C., Cicerone che dapprima si era schierato
dalla parte di Pompeo, pensò bene di riaccostarsi a Cesare, tributandogli
persino qualche elogio (nel Brutus e nella Pro Marcello).
Lo scoppio di una nuova guerra civile vide Cicerone ancora
impegnato nell’elaborazione di una teoria “storiografica” tentando a sua volta
di farsi scrivere una biografia storica da Lucceio. Fu questo il periodo più
tormentato della vita di Cicerone, che oltre alle angustie della politica,
dovette subire anche alcuni dispiaceri familiari: il divorzio dalla moglie
Terenzia (47 a.C.), e la morte dell’amatissima figlia Tullia.
Le mestizie sfociarono in un senso di solitudine che lo
indirizzarono verso altri studi filosofici. In seguito alla morte di Cesare
(alle idi di marzo del 44 a.C.), Marco Antonio tentò di succedergli ma fu
osteggiato da Cicerone che pronunciò contro di lui e con un qualche azzardo, le
quattordici Filippiche. In seguito agli accordi intercorsi nella creazione del
Secondo Triunvirato (43 a.C.), che vide coinvolti Ottaviano (erede e successore
di Cesare), Marco Antonio e Antonio Lepido, l’Arpinate fu inserito nelle liste
di proscrizione. Non rinunciò però a partecipare alla vita politica e per
questo il 7 dicembre dello stesso anno fu assassinato nei pressi della sua villa a Formia.
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