giovedì 27 dicembre 2018

Marco Tullio Cicerone: l'imbattibile oratore... di MalKa


                                              
        

Marco Tullio Cicerone proveniva da una famiglia che si fregiava dello status di equestre. Non avendo alcun legame con l’oligarchia senatoriale romana, poteva considerarsi un homo novus[1], cioè un uomo che non aveva ricoperto cariche pubbliche.

Il grande successo di Cicerone e della sua eloquenza illuminata, lo portò ad occupare tutti i livelli previsti dal cursus honorum e, motivo di orgoglio, al minimo dell’età prevista: fu quindi console a 42 anni.

La sua capacità retorica unita a un innato buonsenso, lo avevano inizialmente reso avverso all'oligarchia portandolo su una posizione di centro. Purtuttavia avversò con pari fermezza nell'anno del suo consolato (63 a. C.), anche quelle proposte a cura dei popolari, che riteneva eccessive, opponendosi così (Plut., Cic., 12,2) alla legge agraria (De lege agraria) del tribuno Servilio Rullo, che intendeva distribuire terre ai veterani di Pompeo. In questo periodo difese il senatore Gaio Rabirio dall’accusa di alto tradimento contro lo stato, per l’episodio dell’uccisione di Saturnino trentacinque anni prima.

Catilina si dimostrò il più pericoloso degli avversari politici, tra l’altro sostenuto non si sa con quanta determinazione da Crasso e da Cesare, che aveva vinto per pochi voti di scarto le elezioni a console. Dopodiché Crasso, quando la congiura di Catilina venne alla luce, rivide immediatamente il suo appoggio portandosi su posizioni di “pentito” mentre Cesare stranamente passò indenne quel momento critico. Le trame del cospiratore furono comunque svelate, come quella di giungere al potere attraverso la strada della congiura, compiendo un eccidio a Roma e una insurrezione in Toscana.

Il console venuto a conoscenza di questa trama, denunciò Catilina davanti al senato riunito nel tempio di Giove Statore, pronunciando il 7 novembre del 63 a.C. la prima delle famose arringhe (Catilinarie). L’accusato, smascherato, fuggì subito in Toscana. Saltò fuori, però, che i congiurati avevano contattato gli Allobrogi, antico e bellicoso popolo della Gallia, affinchè attaccassero i Romani alle spalle durante l’insurrezione nell’Urbe. Cicerone raccolse le prove che gli servivano, grazie anche a un potere accresciuto dall’emergenza civile, e fece giustiziare i congiurati organizzando poi una campagna militare per sconfiggere le truppe di Catilina a Pistoia.


Catilina al senato.

Nell’Urbe i congiurati che tramavano nell’ombra furono smascherati e, nonostante il parere contrario di Cesare, furono giustiziati senza che gli venisse concessa la provocatio ad populum, ovvero l’appello al popolo per sperare in una pena detentiva e non capitale. Questo episodio costò, su proposta di Clodio, l’esilio di Cicerone perché come magistrato aveva fatto giustiziare anche gli aristocratici romani coinvolti nella congiura di Catilina, senza consentir loro di accedere all’istituto della provocatio ad populum, magari come extrema ratio per scampare alla pena di morte (58 a.C.).

Cicerone supplicò Pompeo per evitare l’esilio, ma quest’ultimo gli riferì di non poterlo graziare perché non voleva mettersi contro il volere di Cesare. L’Arpinate decise quindi di lasciare Roma, non prima di aver portato una piccola statua domestica di Minerva al Campidoglio, ponendola nel tempio di Giove, con la speranza di essere con quel simbolo ricordato.

Tornò dall'esilio un anno dopo, in un contesto caratterizzato dallo scontro politico tra Cesare e Pompeo sui temi ad oggetto l’esercizio del potere: in tale situazione si crearono due fazioni capeggiate per i popolari dal tribuno della plebe Clodio, favorevole a Cesare, e per gli ottimati dal tribuno Milone.

Clodio nutriva una profonda avversione verso Cicerone, non perdendo occasione per attaccarlo nelle assemblee pubbliche. Tra l’altro bisogna dire che Clodio precedentemente fu un alleato nella lotta contro Catilina. Probabilmente l’astio tra i due sorse in seguito allo scandalo della Bona Dea, quando Cicerone demolì l’alibi di Clodio processato per essersi intrufolato scandalosamente sotto mentite spoglie femminili nella casa di Cesare (62 a. C.), col fine di intrattenersi con la moglie di questi Pompea. Giulio Cesare non si costituì in giudizio contro Clodio, dichiarando comunque Pompea (opportunisticamente) innocente, e purtuttavia la ripudiò.

Cicerone dopo l’esilio perse un po’ di presenzialismo politico pur avendo ancora molta presa sul pubblico. In senato ricatturò l’attenzione con la De provinciis consularibus (56 a.C.), in cui l’Arpinate reclamava per Cesare, proconsole, la riconferma, contrariamente alle regole, dell’imperium nelle Gallie. Una posizione che il famoso oratore pare abbia assunto prima ancora delle esigenze militari, per tentare di tenere lontano dall’Urbe il futuro dittatore di Roma. Intanto, provò invano di persuadere gli ottimati (aristocratici conservatori), a non inimicarsi Pompeo al punto da indurlo ad accordarsi con Cesare. Con l'orazione De provinciis consularibus, Cicerone tentò di dimostrare, con alcuni attenti passaggi oratori, di non essere nemico di Cesare e di giustificare la sua richiesta di proroga del comando militare con le necessità dell’impero.

Un periodo di riflessione consentì all’Arpinate la stesura del De oratore e il De republica. La prima opera, scritta tra il 55 e il 54 a.C., è composta da tre libri che espongono le caratteristiche e le tecniche per essere un buon oratore, onde eccellere nell’attività forense ma anche in politica.

Il De re publica, opera in sei libri quasi totalmente perduti, fu scritta tra il 54 e il 51 a.C., si colloca nel periodo di forte crisi della res publica, ovvero quando i triunviri si erano impadroniti del potere e Cicerone era stato estromesso dalla vita pubblica. Argomento fondamentale oltre alla politica è quello filosofico, già trattato ampiamente da Platone e Aristotele. Presentato sotto forma di dialogo, nel De re publica, Cicerone esamina i vari assetti di governo monarchico, aristocratico e democratico, nonché i loro opposti cioè la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia.

Nel sesto libro descrive il politico ideale, il princeps, che svolge un ruolo a dir poco provvidenziale, elogiando nello specifico Publio Cornelio Scipione Emiliano (185-129 a.C.), ricordato come modello per eccellenza di princeps, il cui fare diceva, era adeguato a un uomo di governo.

Negli stessi anni, avveniva l’uccisione di Clodio da parte di Milone e il conseguente processo; Cicerone assunse la difesa di Milone pronunciando l’orazione Pro Milone.  Nel 51 a.C. fu mandato proconsole in Cilicia (Turchia meridionale), e quando fu di ritorno capì che di lì a poco ci sarebbe stata una guerra civile. In seguito alla battaglia di Farsalo del 48 a.C., Cicerone che dapprima si era schierato dalla parte di Pompeo, pensò bene di riaccostarsi a Cesare, tributandogli persino qualche elogio (nel Brutus e nella Pro Marcello).

Lo scoppio di una nuova guerra civile vide Cicerone ancora impegnato nell’elaborazione di una teoria “storiografica” tentando a sua volta di farsi scrivere una biografia storica da Lucceio. Fu questo il periodo più tormentato della vita di Cicerone, che oltre alle angustie della politica, dovette subire anche alcuni dispiaceri familiari: il divorzio dalla moglie Terenzia (47 a.C.), e la morte dell’amatissima figlia Tullia.

Le mestizie sfociarono in un senso di solitudine che lo indirizzarono verso altri studi filosofici. In seguito alla morte di Cesare (alle idi di marzo del 44 a.C.), Marco Antonio tentò di succedergli ma fu osteggiato da Cicerone che pronunciò contro di lui e con un qualche azzardo, le quattordici Filippiche. In seguito agli accordi intercorsi nella creazione del Secondo Triunvirato (43 a.C.), che vide coinvolti Ottaviano (erede e successore di Cesare), Marco Antonio e Antonio Lepido, l’Arpinate fu inserito nelle liste di proscrizione. Non rinunciò però a partecipare alla vita politica e per questo il 7 dicembre dello stesso anno fu assassinato nei pressi della sua villa a Formia.






[1] M.T.Cicerone ( a cura di  F. M .Bongiovanni), Milano ,1941, p. 5.

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