mercoledì 19 dicembre 2018

Storiografia Romana in breve... di MalKa

                                           

La storiografia romana ebbe a ricevere da parte degli storici moderni e soprattutto nell’Ottocento, una minore attenzione rispetto alla storiografia ellenica. Probabilmente questa differenza fu dovuta al fatto che la culla della civiltà era individuata nella Grecia, e quindi studiare gli aspetti storici ellenici significava risalire alle origini della civiltà occidentale o quantomeno mediterranea. D’altro canto, sulla storiografia romana pesava il pregiudizio che fosse una copia di quella ellenica, senza nessuna originalità narratoria. Ovviamente un impulso a rivalutare ancora di più, e pienamente la storia di Roma, ci giunge da pubblicazioni e studi sempre più importanti e anche recenti, ad opera di studiosi che hanno avuto l’intuizione di dedicarsi a ogni genere di riscontro del materiale recuperato, per mettere a punto un più attendibile mosaico della straordinaria storia dell’Urbe.

L’esigenza propagandistica dei Romani, che non volevano passare per un pericolo latente agli occhi dei Greci, onde garantirsene la neutralità, portò a controbattere le accuse dei Cartaginesi che lamentavano la violazione di alcuni trattati quale motivazione alla base della prima guerra Punica. Questa esigenza strategica-diplomatica, favorì la narrazione storica romana in lingua greca, ossia una lingua considerata universale, paragonabile all’inglese di oggi. Gli scritti in greco, infatti, erano accessibili facilmente alla classe colta e senatoria romana, in quanto molto spesso costoro avevano buona padronanza di questa lingua, tant’è che in molte biblioteche, tra cui quella afferente alla famosa Villa dei Papiri di Ercolano,  erano presenti molto spesso documenti e papiri in lingua greca. Tale scelta linguistica consentì di diffondere a una più ampia platea la storiografia Romana in ellenico, promuovendo la conoscenza dei fatti e dei personaggi dell'Urbe tra quelle che erano le élites intellettuali più importanti del Mediterraneo: così facendo si tentò di promuovere un'immagine diversa di Roma, rispetto a quella veicolata dai greci.

Nel mondo della Roma arcaica i primi elementi che vengono posti alle origini del racconto storiografico sono  le laudationes funebres, cioè gli elogi funebri, scritti e letti durante la commemorazione, che venivano poi riposti negli archivi delle famiglie generalmente benestanti. L’oratore incaricato dell’encomio funebre, dopo aver parlato del morto, rinvangava le imprese e i successi degli antenati. Così la fama degli uomini valorosi, continuamente rinnovata  e nel ricordo resa immortale e tramandata ai posteri, favoriva il concetto di gloria e di patria.  Quel che più conta, i giovani venivano incitati ad affrontare qualsiasi sacrificio in difesa della loro terra, per ottenere quei riconoscimenti pubblici anche a distanza di tempo e che spettano ai valorosi[1].

Nel mondo romano,  erano ritenute importanti anche le fonti epigrafiche, che erano iscrizioni (tituli) generalmente incise su un supporto rigido, non flessibile e duraturo nel tempo (lastre,ceppi, stele, pietre sepolcrali, colonne, ecc.) che hanno fornito elementi e riscontri molto importanti sui fatti e sulla vita dei Romani.
Per studiosi come Enrica Culasso Gastaldi: « La scrittura epigrafica interessa tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, e, proprio perché connessa all’intero campo dell’esperienza umana, sfugge a ogni tentativo di classificazione che abbia ambizione di sistematicità ». La raccolta più completa di materiale epigrafico in latino è sicuramente il Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), fondato da Mommsen nella seconda metà dell’Ottocento o anche la selezione di epigrafi latine curata da H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae (ILS), Berlin 1892-1916, rist. 1962, in 5 volumi.  Ci sono poi altre fonti come quelle dei grandi collegia e sodalitates, ovvero collegi religiosi ma anche sodalizi politici, economici, amicali, ruotanti intorno a figure politiche o aristocratiche che conservavano nei propri archivi molti documenti contenenti memorie dei fatti salienti verificatisi nell’ambito di ogni collegio. 

Alcuni di questi archivi erano di sicuro interesse, come quello dei pontefici, in quanto ricchi di elementi e riferimenti storicamente preziosi. Alla casta sacerdotale spettava di stabilire il calendario annuale, così come i Fasti consolari, e anche di riportare quelle cronache cittadine che avevano una certa rilevanza per la società romana. Inoltre, gli eventi più importanti trascritti dai pontefici massimi sulle tabulae dealbatae, venivano resi pubblici attraverso l’esposizione delle tavole fuori dalla sede della massima autorità religiosa, come una sorta di odierno manifesto pubblico finalizzato a tenere informato il popolo. L’intestazione delle tavole menzionava i consoli, i magistrati e poi i fatti salienti in patria e in guerra, per terra e per mare. Infatti Servio Auctus[2] scriveva: Così infatti venivano confezionati gli Annali: ogni anno il pontefice massimo aveva una tavola di legno sbiancata,nella quale scriveva per prima cosa i nomi dei consoli e degli altri magistrati; lì soleva annotare le imprese che meritavano di essere ricordate per terra e per mare giorno per giorno. Dalla diligenza del pontefice gli antichi trassero commentarii annui in ottanta libri e li chiamarono Annali Massimi dai pontefici massimi,dai quali erano fatti.

Nel 130 a. C. questi commentari annui furono raccolti negli Annales Maximi (80 libri), per iniziativa del potente pontefice massimo Mucio Scevola che, con questo accorpamento pose poi fine alla prassi dell’esposizione. La tradizione antica riconduceva all’archivio dei pontefici pure le leges regiae (deliberazioni adottate dall’assemblea dei patres) così come i libri e i commentarii, e le regole di quello che era il mos maiorum romano, cioè una raccolta ad oggetto consuetudini e comportamenti, alla base della pacifica e civile convivenza dei Romani fin dalle origini.
Le tavole dealbate riportavano cronologicamente gli avvenimenti più importanti; per questo motivo erano consultate dagli storiografi del tempo ma non erano molto amate da  Cicerone, per la loro aridità espositiva. L’Arpinate[3] così scrive: Erat enim historia nihil aliud nisi annalium confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum res omnis singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus referebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi, eique etiam nunc annales maximi nominantur. Hanc similitudinem scribendi multi secuti sunt, qui sine ullis ornamentis monumenta solum temporum, hominum, locorum gestarumque rerum reliquerunt. [« La storia non era infatti niente altro se non la compilazione degli annali; per questo motivo e perché si conservasse la memoria di ogni fatto pubblico, dall’inizio delle vicende Romane fino al pontificato massimo di P. Mucio Scevola, il pontefice massimo registrava tutti gli avvenimenti di ogni singolo anno trascrivendoli su di una tavola di legno imbiancata, che poneva davanti alla sua casa, affinchè il popolo potesse conoscerli; questi sono quelli che chiamiamo Annali Massimi. Questo modo di scrivere è stato imitato da molti, i quali, senza aggiungere al racconto alcun ornamento retorico, hanno lasciato solo il ricordo dei tempi, dei luoghi, delle imprese»].   
Gli Annales di cui parla Cicerone, prodotti dai pontefici, furono una normale evoluzione dei Fasti, redatti anch’essi dalle autorità religiose. Questi primi rilievi storici (V sec. a.C.), contribuirono alla formazione di una prima storiografia romana. Occorre dire che l’opera annalistica, cioè il trascrivere cronologicamente gli avvenimenti più importanti, oltre ad essere letterariamente una forma espositiva non avvincente, aveva il limite dell’impossibilità di correlare eventi che si svolgevano magari in momenti diversi. 
La decisione di Scevola di abolire questa tradizione affissoria delle tavole, aprì spazi nuovi a chi voleva cimentarsi nel racconto storico (annalisti), che assorbirono questa tradizione pontificia, incominciando però a intravedere altre formule di narrazione magari meno aride.  È importante per una lettura storica degli annali, tener presente la differenza e l’attendibilità delle notizie che venivano tramandate dai vari storici. Proprio per evitare la diffusione di notizie poco veritiere, molti storiografi ricorrevano e ancora oggi ricorrono alla consultazione e allo studio degli annali, valutandoli e comparandoli con altre fonti anche orali e teatrali ed epigrafiche, onde verificare l’attendibilità di un fatto o di una narrazione di interesse storico, attraverso il confronto critico dei testi e di ogni altra testimonianza che supportasse o smentisse o arricchisse la notizia presa in esame. Anche un semplice errore poteva essere ripetuto e tramandato proprio attraverso le fonti primarie. Da questo punto di vista e anche a dimostrazione che la storia continua ad essere argomento di discussione e rivisitazione storica, occorre ricordare che l’archeologia ci consegna di tanto in tanto documenti di grande importanza che si rinvengono nei tanti siti archeologici disseminati nel mondo. Nel merito, fu particolarmente importante la scoperta di Ossirinco, località dell’alto Egitto: qui, sul finire del XIX secolo in una discarica furono rinvenuti manoscritti e papiri in lingua greca e latina, riportanti fonti dal I al VI secolo dopo Cristo...

Tucidide fu tra i primi innovatori a scrivere una memorabile storia della guerra del Peloponneso, in una forma nuova definita monografia. La stesura monografica, diversamente dagli annali, consentiva di trattare un argomento, una vicenda, da tutti i punti di vista, con dissertazioni che potevano largheggiare sulle cause, sui precedenti, sui protagonisti, sui risvolti e sulle conseguenze di un evento importante che necessitava di essere trattato in un modo esaustivo. Ecco allora che, con questo passaggio di stile, il racconto storico entrerà nella cultura romana e negli archivi storici anche nella forma monografica e poi biografica.  
La storiografia romana inizialmente come già abbiamo accennato, fu redatta in lingua greca, probabilmente per raggiungere un pubblico sempre più ampio; una necessità dovuta all’importante espansione di Roma nel Mediterraneo, che non doveva essere vista come una minaccia dagli altri popoli ma piuttosto come una risorsa. I successi militari Romani comportarono una maggiore penetrazione politica in quest’area, e quindi una maggiore importazione della cultura ellenica nell’Urbe, che ad ogni modo non ha mai prevalso sugli usi e sulla lingua latina. Questa ammirazione per il mondo greco pervase soprattutto le classi aristocratiche con importanti manifestazioni di simpatia filoellenica, alla base di pregevoli iniziative come la costituzione del circolo degli Scipione. In questo contesto è interessante segnalare che i Romani, dopo aver vinto velocemente a Pidna (160 a.C.) sui Macedoni di Perseo, spostarono nell’Urbe un importante prigioniero, Polibio che, con la sua notevole cultura, catturò l’attenzione di Scipione Emiliano, che lo graziò aggregandolo al cosiddetto “Circolo” culturale greco romano, attribuito alla loro iniziativa. 

Polibio, affascinato dal travolgente espansionismo romano, ne sposò la causa partecipando anche alla conquista di Numanzia al fianco del suo estimatore Scipione.  Polibio fu un eccellente storico e le sue vicissitudini personali lo portarono con competenza a scrivere le Storie, trattato sulle modalità di creazione dell’egemonia romana, e l’oggetto della sua attività di storico sarà proprio la sua nuova patria (Roma) con la sua irresistibile ascesa. Nelle Storie traspare ovunque l’ammirazione per Roma, come in questo passo[4] in cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri imperi precedenti: L’argomento che stiamo trattando è grande e genera meraviglia; quanto ciò sia vero,appare evidente soprattutto se alla dominazione romana paragoniamo accuratamente i più famosi imperi precedenti,dei quali gli storici hanno più diffusamente narrato le vicende (…). I Romani invece assoggettarono quasi tutta la terra abitata,e instaurarono una supremazia alla quale i contemporanei non poterono resistere,insuperabile per i posteri (…).

Tra gli iniziatori della storiografia romana, una menzione particolare spetta a Timeo di Tauromenio (356 a.C. – 260 a.C.), un siceliota che nelle sue narrazione storiche propose le storie dei Greci in Sicilia e di altre colonie elleniche in quell’Italia che stava diventando tutta romana. Rispetto ai Greci, che erano filocartaginesi, Timeo tenne in debita considerazione i Romani, magari non amandoli, probabilmente intuendo però l’importanza che Roma avrebbe avuto nel futuro a difesa della Sicilia che lui considerava sua  “patria”. Scrivendo abbastanza compiutamente della storia di Roma, rifacendosi prevalentemente a fonti storiche[5] ma senza alcuna partecipazione diretta ad eventi militari, i testi di Timeo ebbero più successo nell’Urbe che non ad Atene, città dove dovette riparare dopo l’esilio comminatogli dal tiranno Agatocle. È interessante l’uso da parte di questo storico della cronologia degli eventi basati sulla cadenza temporale delle Olimpiadi.

Il vero iniziatore della storiografia annalistica romana, tuttavia, rimane Fabio Pittore. Questo aristocratico scrisse la storia (Annales) dalla fondazione di Roma e fino al 207 a.C. consultando e trascrivendo non solo tutte le tabulae, ma accogliendo e pubblicando pure altro materiale d’interesse storico. L’opera di Pittore fu comunque stilata sulla falsariga degli annali dei pontefici. Certamente fu un lavoro ampio, largamente utilizzato da tutti gli storici, tra cui Polibio, che iniziò il suo racconto storico partendo da dove si era interrotto quello di Timeo. Quest’ultimo propose i suoi Annales in greco e solo successivamente furono tradotti in latino. Occorre precisare che non ebbe una grande fortuna, diremmo oggi, editoriale.  Le competenze così come le fonti storiografiche, fino a quel momento (123 a.C.) erano affidate prevalentemente all’annalistica pontificale: con gradualità passarono di mano, in favore di personaggi anche molto importanti, a cui toccò pure di ridiscutere in seguito tanto dell’impero quanto del suo decadentismo morale.  La decisione di Scevola consentì alla storiografia di slegarsi dai vincoli cronologici e ripetitivi della tradizione annalistica sacerdotale; del resto il pontefice, s’intuirà, difficilmente poteva mettere passione nelle tavole dealbate: per questo motivo, agli storici del momento si offrì l’occasione di dare, volendo, un taglio diverso alla cronaca storica antica e contemporanea, ricostruendola in una forma anche differente da quella meramente cronologica.

Occorre dire, in questo contesto, che lo stile annalistico aveva un limite procedurale che non consentiva di correlare fatti che si svolgevano in momenti diversi, e quindi presupponeva già una conoscenza storica degli eventi da parte del lettore. La stesura monografica invece, consentiva di trattare un argomento in modo molto più ampio e correlabile con altre vicende connesse.  Ecco allora che, con questo cambio delle consuetudini e delle competenze e dello stile storiografico, il racconto storico entrò nella società romana e non solo, anche in forma monografica e biografica, secondo canoni di lettura molto più agevoli e avvincenti. L’ingresso della tematica  monografica non ebbe particolari fortune nel mondo classico, se non in epoca tarda. L’ateniese Tucidide fu tra i primi assertori di questo stile, scrivendo della guerra epocale che si accese tra Ateniesi e Peloponnesiaci non disdegnando i discorsi diretti per dare senso ai momenti forti e dinamici dei suoi racconti. Tucidide ebbe l’idea molto innovativa di scegliere un solo argomento da trattare in forma storica, tra l’altro non nascondendo la volontà di volersi interessare solo degli aspetti politici e militari secondo un originale metodo storiografico scientifico a proposito delle fonti. Sulla stessa linea si trovarono Cesare, Tacito ma anche Sallustio: quest’ultimo potremmo definirlo e con tutte le differenze del caso, un imitatore di Tucidide. 

Un altro interessantissimo elemento che caratterizza la storiografia tucididea, è quello legato alla sua opera di storico rigoroso che scrive di una guerra in corso, quella del Peloponneso, che lo ha visto protagonista e poi redattore del conflitto, con delle affinità simili a un colto reporter di guerra. I processi economici e sociali e di costume che caratterizzavano a monte l’humus degli eventi bellici e anche politici, erano tutti elementi amati invece da Erodoto, storico delle guerre persiane, dallo stile semplice e scorrevole, considerato da Cicerone[6] come il padre della storia.

Celio Antipatro con il suo lavoro storico (Historiae) dedicato alla II guerra punica, incominciò a uscire anch’egli fuori dai canoni annalistici, cimentandosi col metodo monografico, con rigore e, altra novità, utilizzando una forma drammatizzante nel racconto degli avvenimenti. Sallustio con il Bellum Catilinae e il Bellum Iughurtinum, offrì  un esempio magistrale e  lampante della storia secondo questo ulteriore e innovativo stile monografico.

Appartiene al genere di trattazione storica monografica anche la biografia, un genere storico letterario nato in Grecia già nel V sec. a.C. Esso si propone di narrare la storia attraverso i protagonisti delle vicende con tutti gli aspetti salienti che vanno dalla morale alle gesta. In tarda età repubblicana annoveriamo tra i biografi Cornelio Nepote, un erudito del suo tempo, che scrisse una raccolta di biografie De Viris illustribus composta da sedici libri, oggi quasi tutti perduti. Interessanti le disquisizioni di Nepote a proposito del relativismo etico, honestum e turpe, oscillante nei giudizi a seconda delle mentalità greche e romane prese a confronto. L’introduzione[7] all’opera può dare la misura del pensiero: Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse eum commode scienterque tibiis cantassei. [«So bene, Attico, che saranno parecchi coloro i quali giudicheranno questo mio genere di scrittura storiografica leggero e indegno delle personalità di uomini illustri, quando vi leggeranno chi abbia insegnato a Epaminonda la musica o che vengono annoverate tra le sue qualità l’agilità nella danza e l’abilità nel suonare il flauto»]. Nepote temeva la critica per il suo arricchimento biografico su cose un po’ più frivole. Valori di differente interpretazione quindi, che d’altra parte riguardarono anche Cicerone che, pur amando l’arte, fece finta di non essere un esperto nella valutazione delle opere trafugate da Verre, perché l’amore per le opere artistiche era considerato per i Romani un segno di debolezza.

Sullo stesso tenore e in età imperiale, si distinse in questo genere Gaio Svetonio, archivista e bibliotecario sotto Traiano; scrisse il De viris illustribus decantando il pregio di alcuni personaggi famosi in varie discipline, con contenuti, secondo i critici, non sempre particolarmente interessanti per gli storici. Poi, scrisse il De vita Caesarum, in otto libri mutili dei capitoli iniziali: in essi si narrano le vicende e le biografie dei dodici  imperatori, Giulio Cesare (I libro), Augusto (II libro), Tiberio (III libro), Caligola (IV libro), Claudio (V libro), Nerone (VI libro) Otone, Galba e Vitellio (VII libro),Vespasiano ,Tito e Domiziano (VIII libro). Il genere biografico fu anche utilizzato da Plutarco con le sue Vite parallele, opera in cui si illustrano le differenze esistenti tra diversi personaggi storici: uno greco e uno romano, accostati fra loro per analogia; vaglierà quindi e tra gli altri, Cesare e Alessandro come Demostene e Cicerone.
Plutarco tra le altre cose ebbe il merito di aver diviso la storiografia dalla biografia, ponendo una distinzione fra la storia e la storia degli uomini. Il genere biografico ebbe pure una certa diffusione all’interno del cristianesimo con il racconto della vita dei santi.

All’inizio del primo secolo e sulla falsariga degli hypomnemata greci, incominciarono a prodursi pubblicazioni chiamate commentarii, una sorta di memoriali, in forma di appunti stilati da personaggi particolarmente in vista come Silla, Cesare, Agrippa e anche Augusto. Il commentario generalmente induce all’autobiografia o comunque alle gesta del narratore, e quindi non potrebbe essere considerato come una vera e propria opera storica letteraria, come nel caso di Silla. Cesare, da questo punto di vista però, rimane grande e inimitabile con i suoi De bello Gallico e il De bello civili. Nella prima opera, emerge certamente la volontà di Cesare di spiegare le varie decisioni che hanno caratterizzato le sue scelte politiche e militari. D’altro canto però, Cesare ha il pregio di riportare nei suoi compendi anche alcuni aspetti etnografici di sicuro interesse: temi questi ultimi, difficilmente richiamati da altri autori. Lo stile utilizzato possiamo classificarlo come misto, perché lo sviluppo è di taglio monografico alla tucididea, pragmatico alla Polibio, ma anche tradizionalmente annalistico: otto libri per otto anni di guerra. Ovviamente i diari di Cesare furono oggetto di revisione da parte dell’autore, onde offrire un prodotto finale scorrevole e interessante.

Come abbiamo visto, il modo di produrre storiografia è senz’altro vario e si concentra innanzitutto sulla necessità di ricercare fonti attendibili, a prescindere che siano di tradizione orale o scritta; oppure che siano riporti di scrittura su supporti rigidi: l’importante è che le fonti vengano poi idealmente sovrapposte e analizzate in senso anche molto critico, secondo criteri efficaci per individuare e distinguere ciò che è vero dal falso, e il probabile dall’improbabile. 

Il confronto tra i vari annali si dimostrò già un proficuo sistema per la ricerca della verità storica, anche se non  sempre si è raggiunto questo obiettivo fino in fondo, perché col trascorrere dei secoli si sono perse molte testimonianze. Occorre dire però, che la ricerca archeologica offre e potrà ulteriormente offrire, con le scoperte che si succedono con una certa frequenza, un notevole contributo per dissipare questioni e dubbi ancora in sospeso.

Un maggiore vulnus lo si è evidenziato nella trattazione degli eventi ovviamente arcaici, dove a volte le leggende si confondono con i fatti reali, soprattutto se ad oggetto della ricerca storica è posto un popolo, quello Romano, che vanta all’origine della sua fondazione (753 a. C.), diverse teorie che affondano decisamente nel mitico. Maneggiare le fonti con cautela e imparzialità è il compito primo di uno storico, tra l’altro come necessità di un modus operandi più volte richiamato da Cicerone, che in più passaggi oratori si è soffermato sulla importanza di riportare la verità nella narrazione storica dei fatti: affermazione che avrebbe avuto una maggiore efficacia senza la lettera a Lucceio, i cui contenuti verranno più avanti discussi.




[1]  Polyb., VI, 53-54.
[2] Serv.( auctus), Comm. ad Vergilii Aeneida, I, 373.
[3] Cic., De Orat., II, 52-53.
[4] Polyb., I, 2, 2-7.
[5]  Cfr. Polyb., II, 27.
[6] Cic., Leg., I, 1, 5.
[7] Nep., Praef. ,I, 1.

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