giovedì 22 novembre 2018

Storia di Roma: note. di MalKa






In questo elaborato suddiviso in più articoli, viene rappresentato il panorama storiografico ad oggetto la storia romana nell’ultimo secolo della Res publica. Avremo quindi modo di affrontare il discorso sulla genesi della storiografia romana, accennando successivamente alle varie tipologie delle fonti utilizzate dagli storici di quel periodo, ma anche dagli intellettuali che in tale disciplina si cimentarono nel corso dei secoli. 
Proporremo poi alcune biografie di storici romani tardo repubblicani, che giudichiamo autori fondamentali per comprendere il periodo in esame, consegnatoci con uno stile narrativo  fatto di opere indiscutibilmente  capisaldi della storiografia Romana. Abbiamo inoltre analizzato alcune opere che lasciano intendere gli stimoli e le differenze che hanno portato i suddetti autori a parlare di formule e di contenuti secondo le varie tipologie narrative del tempo.

Di Marco Tullio Cicerone abbiamo esaminato la famosa lettera a Lucceio, inquadrabile come una sorta d’incitamento a narrare la storia secondo il genere definito monografico, ritenuto dall’Arpinate l’unico modo per dare enfasi ad argomenti, come la congiura di Catilina, che dovevano catturare anche l’attenzione dei lettori meno avvezzi agli studi, alla stregua di quanto succede nelle contese politiche più accese o nei teatri. Cicerone, ricordiamolo, era un personaggio ambizioso, imbevuto di cultura ellenica ed esperto di retorica politica, forense e letteraria, ma non era uno storico nel senso stretto del termine.
La lettera a Lucceio presenta pure il pregio di lasciare intendere il profilo dell’Arpinate, e la sua ferma volontà di entrare nella storia grazie a quella che considera la sua "salvifica" attività di console, prima ancora di quella elegante  e imbattibile di oratore forense.
Successivamente andremo ad approfondire anche il profilo di Gaio Sallustio Crispo, storico e politico, esponendo le tecniche del suo genere monografico, reso evidente dalle famose monografie De  Catilinae  coniurationeBellum Iugurthinum
Sallustio utilizza l’impostazione monografica (che è appunto quasi una novità nella storiografia romana), per evidenziare la sua attenzione verso certi avvenimenti fondamentali per la storia dell’Urbe, come ad esempio la congiura ordita da Lucio Sergio Catilina nel 63 a.C.  Tra l’altro, questo testo fu concepito da Sallustio poco dopo la morte di Cicerone. Dello stesso autore ricordiamo la Guerra Giugurtina, che narra il conflitto combattuto tra il 111 e il 105 a.C. e che oppose Roma a Giugurta, re di Numidia.

Non poteva mancare una particolare attenzione a Tito Livio, lo storico più importante dell’età tardo-repubblicana augustea, autore della monumentale opera Ab Urbe condita, che grazie al ritorno alla tradizionale forma annalistica, quasi una specie di “contrapposizione metodologica” con il genere storiografico basato sulla monografia, costruisce la sua storia di Roma che sarà particolarmente importante quale riferimento fondamentale per tutti gli storici a venire. 
Nei 142 (per alcuni 150) libri divisi in deche e pentadi, Livio espone la storia del popolo Romano dalla leggendaria fondazione dell’Urbe e fino al 9 a.C. o fino al 9 d.C. Sebbene gran parte dell’opera non  ci sia pervenuta perché andata dispersa nei secoli, è stato possibile risalire al contenuto dei libri attraverso le Periochae, dei sintetici riassunti dei singoli libri, elaborati a loro volta da precedenti epitomi risalenti al III e al IV secolo  d.C. In questo lavoro, la premessa e anche le conclusioni possono riallacciarsi al pensiero ciceroniano[1]: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis. [«La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità»]. 

La riflessione è anche questa, cioè, la narrazione cronologica e precisa degli avvenimenti ha la sua importanza, così come il racconto delle passioni che generarono quegli stessi accadimenti, secondo degli unicum che non possono essere disgiunti. Occorre evidenziare che mentre Cicerone e Sallustio provenivano da esperienze senatoriali con un certo intrinseco presenzialismo nella politica attiva, in Livio tutto questo protagonismo politico non c’era (anche se, nella critica, Livio viene definito uno storico di “ tiepida “ opposizione). Lo stile storiografico di Livio non era così puntuale sull’utilizzo di fonti come quello tucidideo; il suo obiettivo però, era quello di consegnare ai posteri una storia gradevole e moralmente efficace con la speranza di riportare i costumi romani e gli ideali di quel popolo, a suo dire amato dagli dei, a quei livelli leggendari del passato che fecero grande l’Urbe e quindi l’Impero.
    Prima Parte
                          Storia e storiografia romana tra il I e il III secolo a.C.
                                                         
Il presupposto fondamentale per discutere di storiografia parte da un importante concetto di Benedetto Croce[2]: la storia come la filosofia non ha un inizio storico, ma solo ideale e metafisico. Il pensiero che probabilmente il noto filosofo intendeva chiarire, è che c’è sempre storia nelle attività dell’uomo: cambia magari il supporto e il linguaggio per rappresentarla e tramandarla, ma una cotale esigenza è insita nell’animo umano. Probabilmente anche le pitture e le incisioni rupestri volevano tramandare qualcosa ai posteri; la scrittura poi, ha cambiato totalmente le cose, offrendo lo strumento ideale per trasmettere la narrazione dei fatti alle generazioni future, utilizzando supporti più stabili e accessibili e duraturi nel tempo; dal papiro si è passati alla carta e poi al silicio che in microspazi racchiude intere enciclopedie facilmente accessibili e duplicabili da un semplice computer.

Croce propone anche una riflessione su quelle che lui chiama “storie di antiquari” e “storie di storici” traendo spunto evidentemente da un passo tratto dalle Storie di Polibio da Megalopoli[3] dove si mette in evidenza che  comporre la storia sui libri è  semplice: basta permanere per un po’ di tempo in una città provvista di biblioteche; ma scrivere la vera storia richiede conoscenza dei luoghi e dei popoli e degli affari politici e militari di cui si parla. Una verità inconfutabile che si palesa soprattutto quando si presenta la necessità storiografica di affondare le ricerche in molte direzioni, finanche nelle lontane pieghe del tempo.
Polibio, a tal proposito, criticò Timeo, perchè asseriva che questi scriveva di storia senza fatica, cioè senza girare fisicamente per quei luoghi e campi di battaglia dove la storia si era di fatto compiuta. Secondo Polibio, la storia procederà bene quando gli uomini vi si dedicheranno non come ora, sbadatamente, ma assiduamente e per tutta la vita (diremmo alla Tito Livio). Infatti scrive[4]Mi sentirei di dire che la storia sarà ben scritta solo quando se ne occuperanno gli uomini d’azione - ma non come fanno ora, considerandola cosa secondaria,ma ritenendo che essa sia una delle imprese più necessarie e più nobili che loro possa toccare di compiere -,e ad essa si applicheranno con diligenza per tutta la vita.

Uno degli elementi fondamentali della iniziale storiografia romana, sono stati i tentativi di assegnare un'origine ellenica all'Urbe, perchè la sua nascita veniva imputata all'opera colonizzatrice di elleni di tutto rispetto come l’ecista Enea e l’itacense Ulisse, ed ancora la troiana Rhome. Se la nascita dell’Urbe era stata all'origine promossa da un manipolo di Greci in fuga, Roma doveva quindi considerarsi Polis Hellenis[5] più che Polis Tirrenica, in ragione della nazionalità dei fondatori. 
Dionigi di Alicarnasso nella sua Storia arcaica, contribuì a veicolare il messaggio della grecità di Roma, marginalizzando di molto l’influenza del popolo etrusco ben radicalizzato in Toscana e nel Lazio e fino a Pontecagnano (Salerno), su quello che sarebbe poi stata in futuro l'Urbe.

Se da un lato è indubbia l’importanza di alcune colonie greche che portarono in dote la cultura ellenica insediandosi soprattutto in terra di Sicilia, ma anche su Megaride e  Ischia, e poi Cuma ad opera degli Eubei, occorre dire che tali frange straniere non offuscarono la lingua latina arcaica, così come gli influssi ellenici non condizionarono in modo significativo le tradizioni e la cultura degli Etruschi, dei Sanniti, dei Volsci e di altre genti italiche con cui evidentemente avevano discreti rapporti commerciali radicati nel tempo. Altro discorso è la lingua greca che trovò ampia sponda in Italia, probabilmente per necessità culturali e diplomatiche soprattutto dell'intellighenzia Romana, il cui desiderio era quello di dare ampia diffusione  dei fatti che caratterizzavano l'Urbe, in tutte quelle terre che avevano sbocco sul Mediterraneo.

La storiografia repubblicana trova la sua genesi nella necessità dei membri della gentes di tramandare ai posteri, oltre al valore della loro patria repubblicana, anche le virtù dei propri antenati a cui si doveva la gloria dell’Urbe, ampiamente riconosciuta come super potenza e non solo mediterranea. Esaltare gesta e genti portava spesso a denigrarne altre, in una sorta di competizione tra le grandeur delle famiglie più in vista. Una certa permeabilità poi, aveva portato i Romani a far coincidere la politica con la religione, soprattutto quando si trattava di descrivere le origini di Roma. Le storie delle vicende romane dovevano evidenziare alcuni principi di fondo, come ad esempio la lealtà, cioè il rispetto per la parola data, come per le tregue e gli accordi; e poi ricorrere agli auspicia e aborrire guerre non giuste, tant’è che le vittorie di Annibale passarono descrittivamente come frutto dell’inganno.

Un altro elemento che caratterizza la storiografia Romana è costituito dalle narrazioni che sovente dovevano partire dal carattere divino della fondazione dell’Urbe, contrariamente alla storiografia greca invece,  basata prevalentemente sul passato recente e sulla tecnica descrittiva molto simile alle odierne interviste che si fanno ai testimoni di eventi drammatici e violenti come ad esempio le guerre. 
I Romani avevano la necessità di liberarsi dalla persistente mentalità ellenica che li voleva “barbari”, e quindi tentavano, attraverso l’illustrazione della loro secolare storia, di stimolare una sorta di benevolenza che li elevasse nel pensiero comune a rango di civiltà evoluta. Raccontare una storia secolare dalle origini, in ogni caso, diede corso a racconti che confondevano il piano narrativo tra il mitico e quello leggendario, con non poche sviste e incongruenze. Tito Livio nella Praefatio[6] precisa che: Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di nobilitare l'origine delle città mescolando l'umano col divino; ma di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto.  

Livio volle delineare immediatamente il carattere prettamente storico della sua opera: purtuttavia nei primi volumi narra la fondazione di Roma da parte di Romolo esaltando le origine mitiche dell’Urbe. Il modello monografico probabilmente si presentò per gli storici come necessità di offrire un racconto storico maggiormente attendibile e più contemporaneo e svincolato dalla storia arcaica.
Anche il pensiero di Cicerone ci sembra corrispondere a una necessità di scrivere di storia recente piuttosto che indagare il periodo più antico che, probabilmente, non lo appassionava moltissimo. Nelle Tusculanae, l’Arpinate dichiara che l’antica cultura romana è finita così com’è finita l’antica cultura greca, in quanto entrambe, a suo dire, rispondevano ad esigenze frutto di contesti storici oramai superati. Attenersi alla verità è la naturale base epistemologica della storiografia; infatti, non si può osar dire alcuna menzogna, e non si può osar non dire una cosa vera; lo storico, inoltre, non deve essere né accusatore e né giudice del passato, e deve sempre adoperarsi per delineare nei suoi scritti un quadro attendibile e aderente alla verità dei fatti, che non possono essere giudicati fuori dai contesti e secondo valori suggeriti dall’attualità.
Dalle Storie di Polibio da Megalopoli[7], si legge : Se si elimina  dalla storia la verità, ciò che di lei  rimane diviene  una narrazione di nessun conto. Due pertanto dicemmo essere le maniere di falsità: l’una che procede da ignoranza, l’altra da elezione. Ed a quelli che per ignoranza deviano dalla verità convenirsi perdonare, ma a coloro che il fanno per elezione doversi serbar inimicizia implacabile. In altre parole, era ritenuta una vera profanazione alterare la verità magari passando per vigliacco un eroe o per grande statista un corrotto personaggio. Tutti elementi che forse spiegano perché Cicerone, preoccupato, tentò di farsi scrivere la sua personale biografia storica dall’amico letterato Lucceio, quando era ancora in vita onde poterla leggere (e correggerla?) in anticipo sui tempi.                
                      

[1] Cic., De orat., II, 9, 36.
[2] B.Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, 1920 ,p 165.
[3] Polyb., II, 27.
[4] Polyb., XII, 28 3-5.
[5] Vanotti G., Roma polis hellenis, in “MEFRA”,1999, pp 217-255.
[6] Liv., Praefatio, 21-31.
[7] Polyb.,V, 38-41.

























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