Visualizzazione post con etichetta Polibio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Polibio. Mostra tutti i post

mercoledì 19 dicembre 2018

Storiografia Romana in breve... di MalKa

                                           

La storiografia romana ebbe a ricevere da parte degli storici moderni e soprattutto nell’Ottocento, una minore attenzione rispetto alla storiografia ellenica. Probabilmente questa differenza fu dovuta al fatto che la culla della civiltà era individuata nella Grecia, e quindi studiare gli aspetti storici ellenici significava risalire alle origini della civiltà occidentale o quantomeno mediterranea. D’altro canto, sulla storiografia romana pesava il pregiudizio che fosse una copia di quella ellenica, senza nessuna originalità narratoria. Ovviamente un impulso a rivalutare ancora di più, e pienamente la storia di Roma, ci giunge da pubblicazioni e studi sempre più importanti e anche recenti, ad opera di studiosi che hanno avuto l’intuizione di dedicarsi a ogni genere di riscontro del materiale recuperato, per mettere a punto un più attendibile mosaico della straordinaria storia dell’Urbe.

L’esigenza propagandistica dei Romani, che non volevano passare per un pericolo latente agli occhi dei Greci, onde garantirsene la neutralità, portò a controbattere le accuse dei Cartaginesi che lamentavano la violazione di alcuni trattati quale motivazione alla base della prima guerra Punica. Questa esigenza strategica-diplomatica, favorì la narrazione storica romana in lingua greca, ossia una lingua considerata universale, paragonabile all’inglese di oggi. Gli scritti in greco, infatti, erano accessibili facilmente alla classe colta e senatoria romana, in quanto molto spesso costoro avevano buona padronanza di questa lingua, tant’è che in molte biblioteche, tra cui quella afferente alla famosa Villa dei Papiri di Ercolano,  erano presenti molto spesso documenti e papiri in lingua greca. Tale scelta linguistica consentì di diffondere a una più ampia platea la storiografia Romana in ellenico, promuovendo la conoscenza dei fatti e dei personaggi dell'Urbe tra quelle che erano le élites intellettuali più importanti del Mediterraneo: così facendo si tentò di promuovere un'immagine diversa di Roma, rispetto a quella veicolata dai greci.

Nel mondo della Roma arcaica i primi elementi che vengono posti alle origini del racconto storiografico sono  le laudationes funebres, cioè gli elogi funebri, scritti e letti durante la commemorazione, che venivano poi riposti negli archivi delle famiglie generalmente benestanti. L’oratore incaricato dell’encomio funebre, dopo aver parlato del morto, rinvangava le imprese e i successi degli antenati. Così la fama degli uomini valorosi, continuamente rinnovata  e nel ricordo resa immortale e tramandata ai posteri, favoriva il concetto di gloria e di patria.  Quel che più conta, i giovani venivano incitati ad affrontare qualsiasi sacrificio in difesa della loro terra, per ottenere quei riconoscimenti pubblici anche a distanza di tempo e che spettano ai valorosi[1].

Nel mondo romano,  erano ritenute importanti anche le fonti epigrafiche, che erano iscrizioni (tituli) generalmente incise su un supporto rigido, non flessibile e duraturo nel tempo (lastre,ceppi, stele, pietre sepolcrali, colonne, ecc.) che hanno fornito elementi e riscontri molto importanti sui fatti e sulla vita dei Romani.
Per studiosi come Enrica Culasso Gastaldi: « La scrittura epigrafica interessa tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, e, proprio perché connessa all’intero campo dell’esperienza umana, sfugge a ogni tentativo di classificazione che abbia ambizione di sistematicità ». La raccolta più completa di materiale epigrafico in latino è sicuramente il Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), fondato da Mommsen nella seconda metà dell’Ottocento o anche la selezione di epigrafi latine curata da H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae (ILS), Berlin 1892-1916, rist. 1962, in 5 volumi.  Ci sono poi altre fonti come quelle dei grandi collegia e sodalitates, ovvero collegi religiosi ma anche sodalizi politici, economici, amicali, ruotanti intorno a figure politiche o aristocratiche che conservavano nei propri archivi molti documenti contenenti memorie dei fatti salienti verificatisi nell’ambito di ogni collegio. 

Alcuni di questi archivi erano di sicuro interesse, come quello dei pontefici, in quanto ricchi di elementi e riferimenti storicamente preziosi. Alla casta sacerdotale spettava di stabilire il calendario annuale, così come i Fasti consolari, e anche di riportare quelle cronache cittadine che avevano una certa rilevanza per la società romana. Inoltre, gli eventi più importanti trascritti dai pontefici massimi sulle tabulae dealbatae, venivano resi pubblici attraverso l’esposizione delle tavole fuori dalla sede della massima autorità religiosa, come una sorta di odierno manifesto pubblico finalizzato a tenere informato il popolo. L’intestazione delle tavole menzionava i consoli, i magistrati e poi i fatti salienti in patria e in guerra, per terra e per mare. Infatti Servio Auctus[2] scriveva: Così infatti venivano confezionati gli Annali: ogni anno il pontefice massimo aveva una tavola di legno sbiancata,nella quale scriveva per prima cosa i nomi dei consoli e degli altri magistrati; lì soleva annotare le imprese che meritavano di essere ricordate per terra e per mare giorno per giorno. Dalla diligenza del pontefice gli antichi trassero commentarii annui in ottanta libri e li chiamarono Annali Massimi dai pontefici massimi,dai quali erano fatti.

Nel 130 a. C. questi commentari annui furono raccolti negli Annales Maximi (80 libri), per iniziativa del potente pontefice massimo Mucio Scevola che, con questo accorpamento pose poi fine alla prassi dell’esposizione. La tradizione antica riconduceva all’archivio dei pontefici pure le leges regiae (deliberazioni adottate dall’assemblea dei patres) così come i libri e i commentarii, e le regole di quello che era il mos maiorum romano, cioè una raccolta ad oggetto consuetudini e comportamenti, alla base della pacifica e civile convivenza dei Romani fin dalle origini.
Le tavole dealbate riportavano cronologicamente gli avvenimenti più importanti; per questo motivo erano consultate dagli storiografi del tempo ma non erano molto amate da  Cicerone, per la loro aridità espositiva. L’Arpinate[3] così scrive: Erat enim historia nihil aliud nisi annalium confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum res omnis singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus referebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi, eique etiam nunc annales maximi nominantur. Hanc similitudinem scribendi multi secuti sunt, qui sine ullis ornamentis monumenta solum temporum, hominum, locorum gestarumque rerum reliquerunt. [« La storia non era infatti niente altro se non la compilazione degli annali; per questo motivo e perché si conservasse la memoria di ogni fatto pubblico, dall’inizio delle vicende Romane fino al pontificato massimo di P. Mucio Scevola, il pontefice massimo registrava tutti gli avvenimenti di ogni singolo anno trascrivendoli su di una tavola di legno imbiancata, che poneva davanti alla sua casa, affinchè il popolo potesse conoscerli; questi sono quelli che chiamiamo Annali Massimi. Questo modo di scrivere è stato imitato da molti, i quali, senza aggiungere al racconto alcun ornamento retorico, hanno lasciato solo il ricordo dei tempi, dei luoghi, delle imprese»].   
Gli Annales di cui parla Cicerone, prodotti dai pontefici, furono una normale evoluzione dei Fasti, redatti anch’essi dalle autorità religiose. Questi primi rilievi storici (V sec. a.C.), contribuirono alla formazione di una prima storiografia romana. Occorre dire che l’opera annalistica, cioè il trascrivere cronologicamente gli avvenimenti più importanti, oltre ad essere letterariamente una forma espositiva non avvincente, aveva il limite dell’impossibilità di correlare eventi che si svolgevano magari in momenti diversi. 
La decisione di Scevola di abolire questa tradizione affissoria delle tavole, aprì spazi nuovi a chi voleva cimentarsi nel racconto storico (annalisti), che assorbirono questa tradizione pontificia, incominciando però a intravedere altre formule di narrazione magari meno aride.  È importante per una lettura storica degli annali, tener presente la differenza e l’attendibilità delle notizie che venivano tramandate dai vari storici. Proprio per evitare la diffusione di notizie poco veritiere, molti storiografi ricorrevano e ancora oggi ricorrono alla consultazione e allo studio degli annali, valutandoli e comparandoli con altre fonti anche orali e teatrali ed epigrafiche, onde verificare l’attendibilità di un fatto o di una narrazione di interesse storico, attraverso il confronto critico dei testi e di ogni altra testimonianza che supportasse o smentisse o arricchisse la notizia presa in esame. Anche un semplice errore poteva essere ripetuto e tramandato proprio attraverso le fonti primarie. Da questo punto di vista e anche a dimostrazione che la storia continua ad essere argomento di discussione e rivisitazione storica, occorre ricordare che l’archeologia ci consegna di tanto in tanto documenti di grande importanza che si rinvengono nei tanti siti archeologici disseminati nel mondo. Nel merito, fu particolarmente importante la scoperta di Ossirinco, località dell’alto Egitto: qui, sul finire del XIX secolo in una discarica furono rinvenuti manoscritti e papiri in lingua greca e latina, riportanti fonti dal I al VI secolo dopo Cristo...

Tucidide fu tra i primi innovatori a scrivere una memorabile storia della guerra del Peloponneso, in una forma nuova definita monografia. La stesura monografica, diversamente dagli annali, consentiva di trattare un argomento, una vicenda, da tutti i punti di vista, con dissertazioni che potevano largheggiare sulle cause, sui precedenti, sui protagonisti, sui risvolti e sulle conseguenze di un evento importante che necessitava di essere trattato in un modo esaustivo. Ecco allora che, con questo passaggio di stile, il racconto storico entrerà nella cultura romana e negli archivi storici anche nella forma monografica e poi biografica.  
La storiografia romana inizialmente come già abbiamo accennato, fu redatta in lingua greca, probabilmente per raggiungere un pubblico sempre più ampio; una necessità dovuta all’importante espansione di Roma nel Mediterraneo, che non doveva essere vista come una minaccia dagli altri popoli ma piuttosto come una risorsa. I successi militari Romani comportarono una maggiore penetrazione politica in quest’area, e quindi una maggiore importazione della cultura ellenica nell’Urbe, che ad ogni modo non ha mai prevalso sugli usi e sulla lingua latina. Questa ammirazione per il mondo greco pervase soprattutto le classi aristocratiche con importanti manifestazioni di simpatia filoellenica, alla base di pregevoli iniziative come la costituzione del circolo degli Scipione. In questo contesto è interessante segnalare che i Romani, dopo aver vinto velocemente a Pidna (160 a.C.) sui Macedoni di Perseo, spostarono nell’Urbe un importante prigioniero, Polibio che, con la sua notevole cultura, catturò l’attenzione di Scipione Emiliano, che lo graziò aggregandolo al cosiddetto “Circolo” culturale greco romano, attribuito alla loro iniziativa. 

Polibio, affascinato dal travolgente espansionismo romano, ne sposò la causa partecipando anche alla conquista di Numanzia al fianco del suo estimatore Scipione.  Polibio fu un eccellente storico e le sue vicissitudini personali lo portarono con competenza a scrivere le Storie, trattato sulle modalità di creazione dell’egemonia romana, e l’oggetto della sua attività di storico sarà proprio la sua nuova patria (Roma) con la sua irresistibile ascesa. Nelle Storie traspare ovunque l’ammirazione per Roma, come in questo passo[4] in cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri imperi precedenti: L’argomento che stiamo trattando è grande e genera meraviglia; quanto ciò sia vero,appare evidente soprattutto se alla dominazione romana paragoniamo accuratamente i più famosi imperi precedenti,dei quali gli storici hanno più diffusamente narrato le vicende (…). I Romani invece assoggettarono quasi tutta la terra abitata,e instaurarono una supremazia alla quale i contemporanei non poterono resistere,insuperabile per i posteri (…).

Tra gli iniziatori della storiografia romana, una menzione particolare spetta a Timeo di Tauromenio (356 a.C. – 260 a.C.), un siceliota che nelle sue narrazione storiche propose le storie dei Greci in Sicilia e di altre colonie elleniche in quell’Italia che stava diventando tutta romana. Rispetto ai Greci, che erano filocartaginesi, Timeo tenne in debita considerazione i Romani, magari non amandoli, probabilmente intuendo però l’importanza che Roma avrebbe avuto nel futuro a difesa della Sicilia che lui considerava sua  “patria”. Scrivendo abbastanza compiutamente della storia di Roma, rifacendosi prevalentemente a fonti storiche[5] ma senza alcuna partecipazione diretta ad eventi militari, i testi di Timeo ebbero più successo nell’Urbe che non ad Atene, città dove dovette riparare dopo l’esilio comminatogli dal tiranno Agatocle. È interessante l’uso da parte di questo storico della cronologia degli eventi basati sulla cadenza temporale delle Olimpiadi.

Il vero iniziatore della storiografia annalistica romana, tuttavia, rimane Fabio Pittore. Questo aristocratico scrisse la storia (Annales) dalla fondazione di Roma e fino al 207 a.C. consultando e trascrivendo non solo tutte le tabulae, ma accogliendo e pubblicando pure altro materiale d’interesse storico. L’opera di Pittore fu comunque stilata sulla falsariga degli annali dei pontefici. Certamente fu un lavoro ampio, largamente utilizzato da tutti gli storici, tra cui Polibio, che iniziò il suo racconto storico partendo da dove si era interrotto quello di Timeo. Quest’ultimo propose i suoi Annales in greco e solo successivamente furono tradotti in latino. Occorre precisare che non ebbe una grande fortuna, diremmo oggi, editoriale.  Le competenze così come le fonti storiografiche, fino a quel momento (123 a.C.) erano affidate prevalentemente all’annalistica pontificale: con gradualità passarono di mano, in favore di personaggi anche molto importanti, a cui toccò pure di ridiscutere in seguito tanto dell’impero quanto del suo decadentismo morale.  La decisione di Scevola consentì alla storiografia di slegarsi dai vincoli cronologici e ripetitivi della tradizione annalistica sacerdotale; del resto il pontefice, s’intuirà, difficilmente poteva mettere passione nelle tavole dealbate: per questo motivo, agli storici del momento si offrì l’occasione di dare, volendo, un taglio diverso alla cronaca storica antica e contemporanea, ricostruendola in una forma anche differente da quella meramente cronologica.

Occorre dire, in questo contesto, che lo stile annalistico aveva un limite procedurale che non consentiva di correlare fatti che si svolgevano in momenti diversi, e quindi presupponeva già una conoscenza storica degli eventi da parte del lettore. La stesura monografica invece, consentiva di trattare un argomento in modo molto più ampio e correlabile con altre vicende connesse.  Ecco allora che, con questo cambio delle consuetudini e delle competenze e dello stile storiografico, il racconto storico entrò nella società romana e non solo, anche in forma monografica e biografica, secondo canoni di lettura molto più agevoli e avvincenti. L’ingresso della tematica  monografica non ebbe particolari fortune nel mondo classico, se non in epoca tarda. L’ateniese Tucidide fu tra i primi assertori di questo stile, scrivendo della guerra epocale che si accese tra Ateniesi e Peloponnesiaci non disdegnando i discorsi diretti per dare senso ai momenti forti e dinamici dei suoi racconti. Tucidide ebbe l’idea molto innovativa di scegliere un solo argomento da trattare in forma storica, tra l’altro non nascondendo la volontà di volersi interessare solo degli aspetti politici e militari secondo un originale metodo storiografico scientifico a proposito delle fonti. Sulla stessa linea si trovarono Cesare, Tacito ma anche Sallustio: quest’ultimo potremmo definirlo e con tutte le differenze del caso, un imitatore di Tucidide. 

Un altro interessantissimo elemento che caratterizza la storiografia tucididea, è quello legato alla sua opera di storico rigoroso che scrive di una guerra in corso, quella del Peloponneso, che lo ha visto protagonista e poi redattore del conflitto, con delle affinità simili a un colto reporter di guerra. I processi economici e sociali e di costume che caratterizzavano a monte l’humus degli eventi bellici e anche politici, erano tutti elementi amati invece da Erodoto, storico delle guerre persiane, dallo stile semplice e scorrevole, considerato da Cicerone[6] come il padre della storia.

Celio Antipatro con il suo lavoro storico (Historiae) dedicato alla II guerra punica, incominciò a uscire anch’egli fuori dai canoni annalistici, cimentandosi col metodo monografico, con rigore e, altra novità, utilizzando una forma drammatizzante nel racconto degli avvenimenti. Sallustio con il Bellum Catilinae e il Bellum Iughurtinum, offrì  un esempio magistrale e  lampante della storia secondo questo ulteriore e innovativo stile monografico.

Appartiene al genere di trattazione storica monografica anche la biografia, un genere storico letterario nato in Grecia già nel V sec. a.C. Esso si propone di narrare la storia attraverso i protagonisti delle vicende con tutti gli aspetti salienti che vanno dalla morale alle gesta. In tarda età repubblicana annoveriamo tra i biografi Cornelio Nepote, un erudito del suo tempo, che scrisse una raccolta di biografie De Viris illustribus composta da sedici libri, oggi quasi tutti perduti. Interessanti le disquisizioni di Nepote a proposito del relativismo etico, honestum e turpe, oscillante nei giudizi a seconda delle mentalità greche e romane prese a confronto. L’introduzione[7] all’opera può dare la misura del pensiero: Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse eum commode scienterque tibiis cantassei. [«So bene, Attico, che saranno parecchi coloro i quali giudicheranno questo mio genere di scrittura storiografica leggero e indegno delle personalità di uomini illustri, quando vi leggeranno chi abbia insegnato a Epaminonda la musica o che vengono annoverate tra le sue qualità l’agilità nella danza e l’abilità nel suonare il flauto»]. Nepote temeva la critica per il suo arricchimento biografico su cose un po’ più frivole. Valori di differente interpretazione quindi, che d’altra parte riguardarono anche Cicerone che, pur amando l’arte, fece finta di non essere un esperto nella valutazione delle opere trafugate da Verre, perché l’amore per le opere artistiche era considerato per i Romani un segno di debolezza.

Sullo stesso tenore e in età imperiale, si distinse in questo genere Gaio Svetonio, archivista e bibliotecario sotto Traiano; scrisse il De viris illustribus decantando il pregio di alcuni personaggi famosi in varie discipline, con contenuti, secondo i critici, non sempre particolarmente interessanti per gli storici. Poi, scrisse il De vita Caesarum, in otto libri mutili dei capitoli iniziali: in essi si narrano le vicende e le biografie dei dodici  imperatori, Giulio Cesare (I libro), Augusto (II libro), Tiberio (III libro), Caligola (IV libro), Claudio (V libro), Nerone (VI libro) Otone, Galba e Vitellio (VII libro),Vespasiano ,Tito e Domiziano (VIII libro). Il genere biografico fu anche utilizzato da Plutarco con le sue Vite parallele, opera in cui si illustrano le differenze esistenti tra diversi personaggi storici: uno greco e uno romano, accostati fra loro per analogia; vaglierà quindi e tra gli altri, Cesare e Alessandro come Demostene e Cicerone.
Plutarco tra le altre cose ebbe il merito di aver diviso la storiografia dalla biografia, ponendo una distinzione fra la storia e la storia degli uomini. Il genere biografico ebbe pure una certa diffusione all’interno del cristianesimo con il racconto della vita dei santi.

All’inizio del primo secolo e sulla falsariga degli hypomnemata greci, incominciarono a prodursi pubblicazioni chiamate commentarii, una sorta di memoriali, in forma di appunti stilati da personaggi particolarmente in vista come Silla, Cesare, Agrippa e anche Augusto. Il commentario generalmente induce all’autobiografia o comunque alle gesta del narratore, e quindi non potrebbe essere considerato come una vera e propria opera storica letteraria, come nel caso di Silla. Cesare, da questo punto di vista però, rimane grande e inimitabile con i suoi De bello Gallico e il De bello civili. Nella prima opera, emerge certamente la volontà di Cesare di spiegare le varie decisioni che hanno caratterizzato le sue scelte politiche e militari. D’altro canto però, Cesare ha il pregio di riportare nei suoi compendi anche alcuni aspetti etnografici di sicuro interesse: temi questi ultimi, difficilmente richiamati da altri autori. Lo stile utilizzato possiamo classificarlo come misto, perché lo sviluppo è di taglio monografico alla tucididea, pragmatico alla Polibio, ma anche tradizionalmente annalistico: otto libri per otto anni di guerra. Ovviamente i diari di Cesare furono oggetto di revisione da parte dell’autore, onde offrire un prodotto finale scorrevole e interessante.

Come abbiamo visto, il modo di produrre storiografia è senz’altro vario e si concentra innanzitutto sulla necessità di ricercare fonti attendibili, a prescindere che siano di tradizione orale o scritta; oppure che siano riporti di scrittura su supporti rigidi: l’importante è che le fonti vengano poi idealmente sovrapposte e analizzate in senso anche molto critico, secondo criteri efficaci per individuare e distinguere ciò che è vero dal falso, e il probabile dall’improbabile. 

Il confronto tra i vari annali si dimostrò già un proficuo sistema per la ricerca della verità storica, anche se non  sempre si è raggiunto questo obiettivo fino in fondo, perché col trascorrere dei secoli si sono perse molte testimonianze. Occorre dire però, che la ricerca archeologica offre e potrà ulteriormente offrire, con le scoperte che si succedono con una certa frequenza, un notevole contributo per dissipare questioni e dubbi ancora in sospeso.

Un maggiore vulnus lo si è evidenziato nella trattazione degli eventi ovviamente arcaici, dove a volte le leggende si confondono con i fatti reali, soprattutto se ad oggetto della ricerca storica è posto un popolo, quello Romano, che vanta all’origine della sua fondazione (753 a. C.), diverse teorie che affondano decisamente nel mitico. Maneggiare le fonti con cautela e imparzialità è il compito primo di uno storico, tra l’altro come necessità di un modus operandi più volte richiamato da Cicerone, che in più passaggi oratori si è soffermato sulla importanza di riportare la verità nella narrazione storica dei fatti: affermazione che avrebbe avuto una maggiore efficacia senza la lettera a Lucceio, i cui contenuti verranno più avanti discussi.




[1]  Polyb., VI, 53-54.
[2] Serv.( auctus), Comm. ad Vergilii Aeneida, I, 373.
[3] Cic., De Orat., II, 52-53.
[4] Polyb., I, 2, 2-7.
[5]  Cfr. Polyb., II, 27.
[6] Cic., Leg., I, 1, 5.
[7] Nep., Praef. ,I, 1.

giovedì 22 novembre 2018

Storia di Roma: note. di MalKa






In questo elaborato suddiviso in più articoli, viene rappresentato il panorama storiografico ad oggetto la storia romana nell’ultimo secolo della Res publica. Avremo quindi modo di affrontare il discorso sulla genesi della storiografia romana, accennando successivamente alle varie tipologie delle fonti utilizzate dagli storici di quel periodo, ma anche dagli intellettuali che in tale disciplina si cimentarono nel corso dei secoli. 
Proporremo poi alcune biografie di storici romani tardo repubblicani, che giudichiamo autori fondamentali per comprendere il periodo in esame, consegnatoci con uno stile narrativo  fatto di opere indiscutibilmente  capisaldi della storiografia Romana. Abbiamo inoltre analizzato alcune opere che lasciano intendere gli stimoli e le differenze che hanno portato i suddetti autori a parlare di formule e di contenuti secondo le varie tipologie narrative del tempo.

Di Marco Tullio Cicerone abbiamo esaminato la famosa lettera a Lucceio, inquadrabile come una sorta d’incitamento a narrare la storia secondo il genere definito monografico, ritenuto dall’Arpinate l’unico modo per dare enfasi ad argomenti, come la congiura di Catilina, che dovevano catturare anche l’attenzione dei lettori meno avvezzi agli studi, alla stregua di quanto succede nelle contese politiche più accese o nei teatri. Cicerone, ricordiamolo, era un personaggio ambizioso, imbevuto di cultura ellenica ed esperto di retorica politica, forense e letteraria, ma non era uno storico nel senso stretto del termine.
La lettera a Lucceio presenta pure il pregio di lasciare intendere il profilo dell’Arpinate, e la sua ferma volontà di entrare nella storia grazie a quella che considera la sua "salvifica" attività di console, prima ancora di quella elegante  e imbattibile di oratore forense.
Successivamente andremo ad approfondire anche il profilo di Gaio Sallustio Crispo, storico e politico, esponendo le tecniche del suo genere monografico, reso evidente dalle famose monografie De  Catilinae  coniurationeBellum Iugurthinum
Sallustio utilizza l’impostazione monografica (che è appunto quasi una novità nella storiografia romana), per evidenziare la sua attenzione verso certi avvenimenti fondamentali per la storia dell’Urbe, come ad esempio la congiura ordita da Lucio Sergio Catilina nel 63 a.C.  Tra l’altro, questo testo fu concepito da Sallustio poco dopo la morte di Cicerone. Dello stesso autore ricordiamo la Guerra Giugurtina, che narra il conflitto combattuto tra il 111 e il 105 a.C. e che oppose Roma a Giugurta, re di Numidia.

Non poteva mancare una particolare attenzione a Tito Livio, lo storico più importante dell’età tardo-repubblicana augustea, autore della monumentale opera Ab Urbe condita, che grazie al ritorno alla tradizionale forma annalistica, quasi una specie di “contrapposizione metodologica” con il genere storiografico basato sulla monografia, costruisce la sua storia di Roma che sarà particolarmente importante quale riferimento fondamentale per tutti gli storici a venire. 
Nei 142 (per alcuni 150) libri divisi in deche e pentadi, Livio espone la storia del popolo Romano dalla leggendaria fondazione dell’Urbe e fino al 9 a.C. o fino al 9 d.C. Sebbene gran parte dell’opera non  ci sia pervenuta perché andata dispersa nei secoli, è stato possibile risalire al contenuto dei libri attraverso le Periochae, dei sintetici riassunti dei singoli libri, elaborati a loro volta da precedenti epitomi risalenti al III e al IV secolo  d.C. In questo lavoro, la premessa e anche le conclusioni possono riallacciarsi al pensiero ciceroniano[1]: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis. [«La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità»]. 

La riflessione è anche questa, cioè, la narrazione cronologica e precisa degli avvenimenti ha la sua importanza, così come il racconto delle passioni che generarono quegli stessi accadimenti, secondo degli unicum che non possono essere disgiunti. Occorre evidenziare che mentre Cicerone e Sallustio provenivano da esperienze senatoriali con un certo intrinseco presenzialismo nella politica attiva, in Livio tutto questo protagonismo politico non c’era (anche se, nella critica, Livio viene definito uno storico di “ tiepida “ opposizione). Lo stile storiografico di Livio non era così puntuale sull’utilizzo di fonti come quello tucidideo; il suo obiettivo però, era quello di consegnare ai posteri una storia gradevole e moralmente efficace con la speranza di riportare i costumi romani e gli ideali di quel popolo, a suo dire amato dagli dei, a quei livelli leggendari del passato che fecero grande l’Urbe e quindi l’Impero.
    Prima Parte
                          Storia e storiografia romana tra il I e il III secolo a.C.
                                                         
Il presupposto fondamentale per discutere di storiografia parte da un importante concetto di Benedetto Croce[2]: la storia come la filosofia non ha un inizio storico, ma solo ideale e metafisico. Il pensiero che probabilmente il noto filosofo intendeva chiarire, è che c’è sempre storia nelle attività dell’uomo: cambia magari il supporto e il linguaggio per rappresentarla e tramandarla, ma una cotale esigenza è insita nell’animo umano. Probabilmente anche le pitture e le incisioni rupestri volevano tramandare qualcosa ai posteri; la scrittura poi, ha cambiato totalmente le cose, offrendo lo strumento ideale per trasmettere la narrazione dei fatti alle generazioni future, utilizzando supporti più stabili e accessibili e duraturi nel tempo; dal papiro si è passati alla carta e poi al silicio che in microspazi racchiude intere enciclopedie facilmente accessibili e duplicabili da un semplice computer.

Croce propone anche una riflessione su quelle che lui chiama “storie di antiquari” e “storie di storici” traendo spunto evidentemente da un passo tratto dalle Storie di Polibio da Megalopoli[3] dove si mette in evidenza che  comporre la storia sui libri è  semplice: basta permanere per un po’ di tempo in una città provvista di biblioteche; ma scrivere la vera storia richiede conoscenza dei luoghi e dei popoli e degli affari politici e militari di cui si parla. Una verità inconfutabile che si palesa soprattutto quando si presenta la necessità storiografica di affondare le ricerche in molte direzioni, finanche nelle lontane pieghe del tempo.
Polibio, a tal proposito, criticò Timeo, perchè asseriva che questi scriveva di storia senza fatica, cioè senza girare fisicamente per quei luoghi e campi di battaglia dove la storia si era di fatto compiuta. Secondo Polibio, la storia procederà bene quando gli uomini vi si dedicheranno non come ora, sbadatamente, ma assiduamente e per tutta la vita (diremmo alla Tito Livio). Infatti scrive[4]Mi sentirei di dire che la storia sarà ben scritta solo quando se ne occuperanno gli uomini d’azione - ma non come fanno ora, considerandola cosa secondaria,ma ritenendo che essa sia una delle imprese più necessarie e più nobili che loro possa toccare di compiere -,e ad essa si applicheranno con diligenza per tutta la vita.

Uno degli elementi fondamentali della iniziale storiografia romana, sono stati i tentativi di assegnare un'origine ellenica all'Urbe, perchè la sua nascita veniva imputata all'opera colonizzatrice di elleni di tutto rispetto come l’ecista Enea e l’itacense Ulisse, ed ancora la troiana Rhome. Se la nascita dell’Urbe era stata all'origine promossa da un manipolo di Greci in fuga, Roma doveva quindi considerarsi Polis Hellenis[5] più che Polis Tirrenica, in ragione della nazionalità dei fondatori. 
Dionigi di Alicarnasso nella sua Storia arcaica, contribuì a veicolare il messaggio della grecità di Roma, marginalizzando di molto l’influenza del popolo etrusco ben radicalizzato in Toscana e nel Lazio e fino a Pontecagnano (Salerno), su quello che sarebbe poi stata in futuro l'Urbe.

Se da un lato è indubbia l’importanza di alcune colonie greche che portarono in dote la cultura ellenica insediandosi soprattutto in terra di Sicilia, ma anche su Megaride e  Ischia, e poi Cuma ad opera degli Eubei, occorre dire che tali frange straniere non offuscarono la lingua latina arcaica, così come gli influssi ellenici non condizionarono in modo significativo le tradizioni e la cultura degli Etruschi, dei Sanniti, dei Volsci e di altre genti italiche con cui evidentemente avevano discreti rapporti commerciali radicati nel tempo. Altro discorso è la lingua greca che trovò ampia sponda in Italia, probabilmente per necessità culturali e diplomatiche soprattutto dell'intellighenzia Romana, il cui desiderio era quello di dare ampia diffusione  dei fatti che caratterizzavano l'Urbe, in tutte quelle terre che avevano sbocco sul Mediterraneo.

La storiografia repubblicana trova la sua genesi nella necessità dei membri della gentes di tramandare ai posteri, oltre al valore della loro patria repubblicana, anche le virtù dei propri antenati a cui si doveva la gloria dell’Urbe, ampiamente riconosciuta come super potenza e non solo mediterranea. Esaltare gesta e genti portava spesso a denigrarne altre, in una sorta di competizione tra le grandeur delle famiglie più in vista. Una certa permeabilità poi, aveva portato i Romani a far coincidere la politica con la religione, soprattutto quando si trattava di descrivere le origini di Roma. Le storie delle vicende romane dovevano evidenziare alcuni principi di fondo, come ad esempio la lealtà, cioè il rispetto per la parola data, come per le tregue e gli accordi; e poi ricorrere agli auspicia e aborrire guerre non giuste, tant’è che le vittorie di Annibale passarono descrittivamente come frutto dell’inganno.

Un altro elemento che caratterizza la storiografia Romana è costituito dalle narrazioni che sovente dovevano partire dal carattere divino della fondazione dell’Urbe, contrariamente alla storiografia greca invece,  basata prevalentemente sul passato recente e sulla tecnica descrittiva molto simile alle odierne interviste che si fanno ai testimoni di eventi drammatici e violenti come ad esempio le guerre. 
I Romani avevano la necessità di liberarsi dalla persistente mentalità ellenica che li voleva “barbari”, e quindi tentavano, attraverso l’illustrazione della loro secolare storia, di stimolare una sorta di benevolenza che li elevasse nel pensiero comune a rango di civiltà evoluta. Raccontare una storia secolare dalle origini, in ogni caso, diede corso a racconti che confondevano il piano narrativo tra il mitico e quello leggendario, con non poche sviste e incongruenze. Tito Livio nella Praefatio[6] precisa che: Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di nobilitare l'origine delle città mescolando l'umano col divino; ma di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto.  

Livio volle delineare immediatamente il carattere prettamente storico della sua opera: purtuttavia nei primi volumi narra la fondazione di Roma da parte di Romolo esaltando le origine mitiche dell’Urbe. Il modello monografico probabilmente si presentò per gli storici come necessità di offrire un racconto storico maggiormente attendibile e più contemporaneo e svincolato dalla storia arcaica.
Anche il pensiero di Cicerone ci sembra corrispondere a una necessità di scrivere di storia recente piuttosto che indagare il periodo più antico che, probabilmente, non lo appassionava moltissimo. Nelle Tusculanae, l’Arpinate dichiara che l’antica cultura romana è finita così com’è finita l’antica cultura greca, in quanto entrambe, a suo dire, rispondevano ad esigenze frutto di contesti storici oramai superati. Attenersi alla verità è la naturale base epistemologica della storiografia; infatti, non si può osar dire alcuna menzogna, e non si può osar non dire una cosa vera; lo storico, inoltre, non deve essere né accusatore e né giudice del passato, e deve sempre adoperarsi per delineare nei suoi scritti un quadro attendibile e aderente alla verità dei fatti, che non possono essere giudicati fuori dai contesti e secondo valori suggeriti dall’attualità.
Dalle Storie di Polibio da Megalopoli[7], si legge : Se si elimina  dalla storia la verità, ciò che di lei  rimane diviene  una narrazione di nessun conto. Due pertanto dicemmo essere le maniere di falsità: l’una che procede da ignoranza, l’altra da elezione. Ed a quelli che per ignoranza deviano dalla verità convenirsi perdonare, ma a coloro che il fanno per elezione doversi serbar inimicizia implacabile. In altre parole, era ritenuta una vera profanazione alterare la verità magari passando per vigliacco un eroe o per grande statista un corrotto personaggio. Tutti elementi che forse spiegano perché Cicerone, preoccupato, tentò di farsi scrivere la sua personale biografia storica dall’amico letterato Lucceio, quando era ancora in vita onde poterla leggere (e correggerla?) in anticipo sui tempi.                
                      

[1] Cic., De orat., II, 9, 36.
[2] B.Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, 1920 ,p 165.
[3] Polyb., II, 27.
[4] Polyb., XII, 28 3-5.
[5] Vanotti G., Roma polis hellenis, in “MEFRA”,1999, pp 217-255.
[6] Liv., Praefatio, 21-31.
[7] Polyb.,V, 38-41.