La storiografia romana
ebbe a ricevere da parte degli storici moderni e soprattutto nell’Ottocento,
una minore attenzione rispetto alla storiografia ellenica. Probabilmente questa
differenza fu dovuta al fatto che la culla della civiltà era individuata nella
Grecia, e quindi studiare gli aspetti storici ellenici significava risalire
alle origini della civiltà occidentale o quantomeno mediterranea. D’altro
canto, sulla storiografia romana pesava il pregiudizio che fosse una copia di
quella ellenica, senza nessuna originalità narratoria. Ovviamente un impulso a
rivalutare ancora di più, e pienamente la storia di Roma, ci giunge da
pubblicazioni e studi sempre più importanti e anche recenti, ad opera di
studiosi che hanno avuto l’intuizione di dedicarsi a ogni genere di riscontro
del materiale recuperato, per mettere a punto un più attendibile mosaico della straordinaria storia dell’Urbe.
L’esigenza
propagandistica dei Romani, che non volevano passare per un pericolo latente
agli occhi dei Greci, onde garantirsene la neutralità, portò a controbattere le
accuse dei Cartaginesi che lamentavano la violazione di alcuni trattati quale motivazione alla base della prima guerra Punica. Questa esigenza
strategica-diplomatica, favorì la narrazione storica romana in lingua greca,
ossia una lingua considerata universale, paragonabile all’inglese di oggi. Gli
scritti in greco, infatti, erano accessibili facilmente alla classe colta e
senatoria romana, in quanto molto spesso costoro avevano buona padronanza di
questa lingua, tant’è che in molte biblioteche, tra cui quella afferente alla
famosa Villa dei Papiri di Ercolano, erano presenti molto spesso documenti e papiri
in lingua greca. Tale scelta linguistica consentì di diffondere a una più ampia platea la storiografia Romana in ellenico, promuovendo la conoscenza dei fatti e dei personaggi dell'Urbe tra quelle che erano le élites intellettuali più importanti del Mediterraneo: così facendo si tentò di promuovere un'immagine diversa di Roma, rispetto a quella veicolata dai greci.
Nel mondo della Roma
arcaica i primi elementi che vengono
posti alle origini del racconto storiografico sono le laudationes funebres, cioè gli elogi
funebri, scritti e letti durante la commemorazione, che venivano poi riposti negli archivi delle famiglie
generalmente benestanti. L’oratore incaricato dell’encomio funebre, dopo aver
parlato del morto, rinvangava le imprese e i successi degli antenati. Così la fama degli uomini valorosi, continuamente
rinnovata e nel ricordo resa immortale e tramandata ai posteri, favoriva il concetto di gloria e di patria. Quel che più conta, i giovani
venivano incitati ad affrontare qualsiasi sacrificio in difesa della loro terra, per
ottenere quei riconoscimenti pubblici anche a distanza di tempo e che spettano ai valorosi.
Nel
mondo romano, erano ritenute importanti anche le fonti epigrafiche, che erano
iscrizioni (tituli) generalmente
incise su un supporto rigido, non flessibile e duraturo nel tempo (lastre,ceppi, stele, pietre sepolcrali, colonne, ecc.) che hanno fornito elementi e
riscontri molto importanti sui fatti e sulla vita dei Romani.
Per studiosi come
Enrica Culasso Gastaldi: « La scrittura epigrafica interessa tutti gli aspetti
della vita individuale e collettiva, e, proprio perché connessa all’intero
campo dell’esperienza umana, sfugge a ogni tentativo di classificazione che
abbia ambizione di sistematicità ». La raccolta più completa di materiale
epigrafico in latino è sicuramente il Corpus
Inscriptionum Latinarum (CIL),
fondato da Mommsen nella seconda metà dell’Ottocento o anche la selezione di
epigrafi latine curata da H. Dessau, Inscriptiones
Latinae Selectae (ILS), Berlin 1892-1916, rist. 1962, in 5 volumi. Ci sono poi altre fonti come quelle dei
grandi collegia e sodalitates, ovvero collegi religiosi ma
anche sodalizi politici, economici, amicali, ruotanti intorno a figure
politiche o aristocratiche che conservavano nei propri archivi molti documenti
contenenti memorie dei fatti salienti verificatisi nell’ambito di ogni
collegio.
Alcuni di questi archivi erano di sicuro interesse, come quello dei
pontefici, in quanto ricchi di elementi e riferimenti storicamente preziosi.
Alla casta sacerdotale spettava di stabilire il calendario annuale, così come i
Fasti consolari, e anche di riportare
quelle cronache cittadine che avevano una certa rilevanza per la società
romana. Inoltre, gli eventi più importanti trascritti dai pontefici massimi
sulle tabulae dealbatae, venivano
resi pubblici attraverso l’esposizione delle tavole fuori dalla sede della
massima autorità religiosa, come una sorta di odierno manifesto pubblico
finalizzato a tenere informato il popolo. L’intestazione delle tavole
menzionava i consoli, i magistrati e poi i fatti salienti in patria e in
guerra, per terra e per mare. Infatti Servio Auctus
scriveva: Così infatti venivano confezionati
gli Annali: ogni anno il pontefice massimo aveva una tavola di legno sbiancata,nella
quale scriveva per prima cosa i nomi dei consoli e degli altri magistrati; lì
soleva annotare le imprese che meritavano di essere ricordate per terra e per
mare giorno per giorno. Dalla diligenza del pontefice gli antichi trassero
commentarii annui in ottanta libri e li chiamarono Annali Massimi dai pontefici
massimi,dai quali erano fatti.
Nel 130 a. C. questi
commentari annui furono raccolti negli Annales
Maximi (80 libri), per iniziativa del potente pontefice massimo Mucio
Scevola che, con questo accorpamento pose poi fine alla prassi
dell’esposizione. La tradizione antica riconduceva all’archivio dei pontefici
pure le leges regiae (deliberazioni
adottate dall’assemblea dei patres)
così come i libri e i commentarii, e
le regole di quello che era il mos
maiorum romano, cioè una raccolta ad oggetto consuetudini e comportamenti,
alla base della pacifica e civile convivenza dei Romani fin dalle origini.
Le tavole dealbate
riportavano cronologicamente gli avvenimenti più importanti; per questo motivo
erano consultate dagli storiografi del tempo ma non erano molto amate da Cicerone, per la loro aridità espositiva. L’Arpinate così scrive:
Erat enim historia nihil aliud nisi
annalium confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio
rerum Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum res omnis singulorum
annorum mandabat litteris pontifex maximus referebatque in album et proponebat
tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi, eique etiam nunc annales
maximi nominantur. Hanc similitudinem scribendi multi secuti sunt, qui sine
ullis ornamentis monumenta solum temporum, hominum, locorum gestarumque rerum
reliquerunt. [« La storia non era infatti niente altro se non la
compilazione degli annali; per questo motivo e perché si conservasse la memoria
di ogni fatto pubblico, dall’inizio delle vicende Romane fino al pontificato
massimo di P. Mucio Scevola, il pontefice massimo registrava tutti gli
avvenimenti di ogni singolo anno trascrivendoli su di una tavola di legno
imbiancata, che poneva davanti alla sua casa, affinchè il popolo potesse
conoscerli; questi sono quelli che chiamiamo Annali Massimi. Questo modo di
scrivere è stato imitato da molti, i quali, senza aggiungere al racconto alcun
ornamento retorico, hanno lasciato solo il ricordo dei tempi, dei luoghi, delle
imprese»].
Gli Annales di cui parla Cicerone, prodotti dai pontefici, furono una
normale evoluzione dei Fasti, redatti anch’essi dalle autorità religiose.
Questi primi rilievi storici (V sec. a.C.), contribuirono alla formazione di
una prima storiografia romana. Occorre dire che l’opera annalistica, cioè il
trascrivere cronologicamente gli avvenimenti più importanti, oltre ad essere
letterariamente una forma espositiva non avvincente, aveva il limite
dell’impossibilità di correlare eventi che si svolgevano magari in momenti
diversi.
La decisione di Scevola di abolire questa tradizione affissoria delle
tavole, aprì spazi nuovi a chi voleva cimentarsi nel racconto storico
(annalisti), che assorbirono questa tradizione pontificia, incominciando però a
intravedere altre formule di narrazione magari meno aride. È importante per una lettura storica degli
annali, tener presente la differenza e l’attendibilità delle notizie che
venivano tramandate dai vari storici. Proprio per evitare la diffusione di
notizie poco veritiere, molti storiografi ricorrevano e ancora oggi ricorrono
alla consultazione e allo studio degli annali, valutandoli e comparandoli con
altre fonti anche orali e teatrali ed epigrafiche, onde verificare l’attendibilità
di un fatto o di una narrazione di interesse storico, attraverso il confronto
critico dei testi e di ogni altra testimonianza che supportasse o smentisse o arricchisse la
notizia presa in esame. Anche un semplice errore poteva essere ripetuto e
tramandato proprio attraverso le fonti primarie. Da
questo punto di vista e anche a dimostrazione che la storia continua ad essere
argomento di discussione e rivisitazione storica, occorre ricordare che l’archeologia ci consegna di
tanto in tanto documenti di grande importanza che si rinvengono nei tanti siti archeologici disseminati nel mondo. Nel merito, fu particolarmente importante la scoperta di Ossirinco,
località dell’alto Egitto: qui, sul finire del XIX secolo in una discarica
furono rinvenuti manoscritti e papiri in lingua greca e latina, riportanti
fonti dal I al VI secolo dopo Cristo...
Tucidide fu tra i primi
innovatori a scrivere una memorabile storia della guerra del Peloponneso, in
una forma nuova definita monografia. La stesura monografica, diversamente
dagli annali, consentiva di trattare un argomento, una vicenda, da tutti i
punti di vista, con dissertazioni che potevano largheggiare sulle cause, sui
precedenti, sui protagonisti, sui risvolti e sulle conseguenze di un evento
importante che necessitava di essere trattato in un modo esaustivo. Ecco allora che, con questo passaggio di
stile, il racconto storico entrerà nella cultura romana e negli archivi storici
anche nella forma monografica e poi biografica.
La storiografia romana inizialmente come già abbiamo accennato, fu redatta
in lingua greca, probabilmente per raggiungere un pubblico sempre più ampio;
una necessità dovuta all’importante espansione di Roma nel Mediterraneo, che
non doveva essere vista come una minaccia dagli altri popoli ma piuttosto come
una risorsa. I successi militari Romani comportarono una maggiore penetrazione
politica in quest’area, e quindi una maggiore importazione della cultura
ellenica nell’Urbe, che ad ogni modo non ha mai prevalso sugli usi e sulla
lingua latina. Questa ammirazione per il mondo greco pervase soprattutto le
classi aristocratiche con importanti manifestazioni di simpatia filoellenica,
alla base di pregevoli iniziative come la costituzione del circolo degli
Scipione. In questo contesto è interessante segnalare che i Romani, dopo aver
vinto velocemente a Pidna (160 a.C.) sui Macedoni di Perseo, spostarono
nell’Urbe un importante prigioniero, Polibio che, con la sua notevole cultura, catturò l’attenzione di Scipione Emiliano, che lo graziò aggregandolo al cosiddetto
“Circolo” culturale greco romano, attribuito alla loro iniziativa.
Polibio, affascinato
dal travolgente espansionismo romano, ne sposò la causa partecipando anche alla
conquista di Numanzia al fianco del suo estimatore Scipione. Polibio fu un eccellente storico e le sue
vicissitudini personali lo portarono con competenza a scrivere le Storie, trattato sulle modalità di
creazione dell’egemonia romana, e l’oggetto della sua attività di storico sarà
proprio la sua nuova patria (Roma) con la sua irresistibile ascesa. Nelle Storie traspare ovunque l’ammirazione
per Roma, come in questo passo in
cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri imperi
precedenti: L’argomento che stiamo
trattando è grande e genera meraviglia; quanto ciò sia vero,appare evidente
soprattutto se alla dominazione romana paragoniamo accuratamente i più famosi
imperi precedenti,dei quali gli storici hanno più diffusamente narrato le
vicende (…). I Romani invece assoggettarono quasi tutta la terra abitata,e
instaurarono una supremazia alla quale i contemporanei non poterono
resistere,insuperabile per i posteri (…).
Tra gli iniziatori della storiografia romana,
una menzione particolare spetta a Timeo di Tauromenio (356 a.C. – 260 a.C.), un
siceliota che nelle sue narrazione storiche propose le storie dei Greci in
Sicilia e di altre colonie elleniche in quell’Italia che stava diventando tutta
romana. Rispetto ai Greci, che erano filocartaginesi, Timeo tenne in debita
considerazione i Romani, magari non amandoli, probabilmente intuendo però
l’importanza che Roma avrebbe avuto nel futuro a difesa della Sicilia che lui
considerava sua “patria”. Scrivendo
abbastanza compiutamente della storia di Roma, rifacendosi prevalentemente a
fonti storiche ma senza alcuna
partecipazione diretta ad eventi militari, i testi di Timeo ebbero più successo
nell’Urbe che non ad Atene, città dove dovette riparare dopo l’esilio
comminatogli dal tiranno Agatocle. È interessante l’uso da parte di questo
storico della cronologia degli eventi basati sulla cadenza temporale delle Olimpiadi.
Il vero iniziatore della
storiografia annalistica romana, tuttavia, rimane Fabio Pittore. Questo
aristocratico scrisse la storia (Annales)
dalla fondazione di Roma e fino al 207 a.C. consultando e trascrivendo non solo
tutte le tabulae, ma accogliendo e
pubblicando pure altro materiale d’interesse storico. L’opera di Pittore fu comunque
stilata sulla falsariga degli annali dei pontefici. Certamente fu un lavoro
ampio, largamente utilizzato da tutti gli storici, tra cui Polibio, che iniziò
il suo racconto storico partendo da dove si era interrotto quello di Timeo.
Quest’ultimo propose i suoi Annales
in greco e solo successivamente furono tradotti in latino. Occorre precisare
che non ebbe una grande fortuna, diremmo oggi, editoriale. Le competenze così come le fonti
storiografiche, fino a quel momento (123 a.C.) erano affidate prevalentemente
all’annalistica pontificale: con gradualità passarono di mano, in favore di
personaggi anche molto importanti, a cui toccò pure di ridiscutere in seguito
tanto dell’impero quanto del suo decadentismo morale. La decisione di Scevola consentì alla
storiografia di slegarsi dai vincoli cronologici e ripetitivi della tradizione
annalistica sacerdotale; del resto il pontefice, s’intuirà, difficilmente
poteva mettere passione nelle tavole dealbate: per questo motivo, agli storici
del momento si offrì l’occasione di dare, volendo, un taglio diverso alla
cronaca storica antica e contemporanea, ricostruendola in una forma anche differente
da quella meramente cronologica.
Occorre dire, in questo
contesto, che lo stile annalistico aveva un limite procedurale che non
consentiva di correlare fatti che si svolgevano in momenti diversi, e quindi
presupponeva già una conoscenza storica degli eventi da parte del lettore. La
stesura monografica invece, consentiva di trattare un argomento in modo molto più ampio e correlabile con altre vicende connesse. Ecco allora che, con questo cambio delle consuetudini
e delle competenze e dello stile storiografico, il racconto storico entrò nella
società romana e non solo, anche in forma monografica e biografica, secondo
canoni di lettura molto più agevoli e avvincenti. L’ingresso
della tematica monografica non ebbe
particolari fortune nel mondo classico, se non in epoca tarda. L’ateniese
Tucidide fu tra i primi assertori di questo stile, scrivendo della guerra
epocale che si accese tra Ateniesi e Peloponnesiaci non disdegnando i discorsi
diretti per dare senso ai momenti forti e dinamici dei suoi racconti. Tucidide
ebbe l’idea molto innovativa di scegliere un solo argomento da trattare in
forma storica, tra l’altro non nascondendo la volontà di volersi interessare
solo degli aspetti politici e militari secondo un originale metodo storiografico
scientifico a proposito delle fonti. Sulla stessa linea si trovarono Cesare,
Tacito ma anche Sallustio: quest’ultimo potremmo definirlo e con tutte le
differenze del caso, un imitatore di Tucidide.
Un altro interessantissimo
elemento che caratterizza la storiografia tucididea, è quello legato alla sua
opera di storico rigoroso che scrive di una guerra in corso, quella del
Peloponneso, che lo ha visto protagonista e poi redattore del conflitto, con
delle affinità simili a un colto reporter di guerra. I processi economici e
sociali e di costume che caratterizzavano a monte l’humus degli eventi bellici
e anche politici, erano tutti elementi amati invece da Erodoto, storico delle
guerre persiane, dallo stile semplice e scorrevole, considerato da Cicerone come
il padre della storia.
Celio Antipatro con il
suo lavoro storico (Historiae) dedicato
alla II guerra punica, incominciò a uscire anch’egli fuori dai canoni
annalistici, cimentandosi col metodo monografico, con rigore e, altra novità,
utilizzando una forma drammatizzante nel racconto degli avvenimenti. Sallustio
con il Bellum Catilinae e il Bellum Iughurtinum, offrì un esempio magistrale e lampante della storia secondo questo ulteriore e innovativo stile monografico.
Appartiene al genere di
trattazione storica monografica anche la biografia, un genere storico
letterario nato in Grecia già nel V sec. a.C. Esso si propone di narrare la
storia attraverso i protagonisti delle vicende con tutti gli aspetti salienti
che vanno dalla morale alle gesta. In tarda età repubblicana annoveriamo tra i
biografi Cornelio Nepote, un erudito del suo tempo, che scrisse una raccolta di
biografie De Viris illustribus
composta da sedici libri, oggi quasi tutti perduti. Interessanti le
disquisizioni di Nepote a proposito del relativismo etico, honestum e turpe,
oscillante nei giudizi a seconda delle mentalità greche e romane prese a
confronto. L’introduzione
all’opera può dare la misura del pensiero: Non
dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum
summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit
Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse eum commode
scienterque tibiis cantassei. [«So bene, Attico, che saranno parecchi
coloro i quali giudicheranno questo mio genere di scrittura storiografica
leggero e indegno delle personalità di uomini illustri, quando vi leggeranno
chi abbia insegnato a Epaminonda la musica o che vengono annoverate tra le sue
qualità l’agilità nella danza e l’abilità nel suonare il flauto»]. Nepote
temeva la critica per il suo arricchimento biografico su cose un po’ più
frivole. Valori di differente interpretazione quindi, che d’altra parte
riguardarono anche Cicerone che, pur amando l’arte, fece finta di non essere un
esperto nella valutazione delle opere trafugate da Verre, perché l’amore per le
opere artistiche era considerato per i Romani un segno di debolezza.
Sullo stesso tenore e in
età imperiale, si distinse in questo genere Gaio Svetonio, archivista e
bibliotecario sotto Traiano; scrisse il De
viris illustribus decantando il pregio di alcuni personaggi famosi in varie
discipline, con contenuti, secondo i critici, non sempre particolarmente
interessanti per gli storici. Poi, scrisse il De vita Caesarum, in otto libri mutili dei capitoli iniziali: in
essi si narrano le vicende e le biografie dei dodici imperatori, Giulio Cesare (I libro), Augusto (II
libro), Tiberio (III libro), Caligola (IV libro), Claudio (V libro), Nerone (VI
libro) Otone, Galba e Vitellio (VII libro),Vespasiano ,Tito e Domiziano (VIII
libro). Il genere biografico fu anche utilizzato da Plutarco con le sue Vite parallele, opera in cui si
illustrano le differenze esistenti tra diversi personaggi storici: uno greco e
uno romano, accostati fra loro per analogia; vaglierà quindi e tra gli altri,
Cesare e Alessandro come Demostene e Cicerone.
Plutarco tra le altre
cose ebbe il merito di aver diviso la storiografia dalla biografia, ponendo una
distinzione fra la storia e la storia degli uomini. Il genere biografico ebbe pure
una certa diffusione all’interno del cristianesimo con il racconto della vita
dei santi.
All’inizio del primo
secolo e sulla falsariga degli hypomnemata
greci, incominciarono a prodursi pubblicazioni chiamate commentarii, una sorta di memoriali, in forma di appunti stilati da
personaggi particolarmente in vista come Silla, Cesare, Agrippa e anche
Augusto. Il commentario generalmente induce all’autobiografia o comunque alle
gesta del narratore, e quindi non potrebbe essere considerato come una vera e
propria opera storica letteraria, come nel caso di Silla. Cesare, da questo
punto di vista però, rimane grande e inimitabile con i suoi De bello Gallico e il De bello civili. Nella prima opera,
emerge certamente la volontà di Cesare di spiegare le varie decisioni che hanno
caratterizzato le sue scelte politiche e militari. D’altro canto però, Cesare
ha il pregio di riportare nei suoi compendi anche alcuni aspetti etnografici di
sicuro interesse: temi questi ultimi, difficilmente richiamati da altri autori.
Lo stile utilizzato possiamo classificarlo come misto, perché lo sviluppo è di
taglio monografico alla tucididea, pragmatico alla Polibio, ma anche
tradizionalmente annalistico: otto libri per otto anni di guerra. Ovviamente i
diari di Cesare furono oggetto di revisione da parte dell’autore, onde offrire
un prodotto finale scorrevole e interessante.
Come abbiamo visto, il
modo di produrre storiografia è senz’altro vario e si concentra innanzitutto
sulla necessità di ricercare fonti attendibili, a prescindere che siano di
tradizione orale o scritta; oppure che siano riporti di scrittura su supporti
rigidi: l’importante è che le fonti vengano poi idealmente sovrapposte e
analizzate in senso anche molto critico, secondo criteri efficaci per individuare e distinguere ciò che è
vero dal falso, e il probabile dall’improbabile.
Il confronto tra i vari annali
si dimostrò già un proficuo sistema per la ricerca della verità storica, anche
se non sempre si è raggiunto questo obiettivo fino in fondo, perché col trascorrere dei secoli si sono perse molte
testimonianze. Occorre dire però, che la ricerca archeologica offre e potrà
ulteriormente offrire, con le scoperte che si succedono con una certa frequenza, un notevole contributo
per dissipare questioni e dubbi ancora in sospeso.
Un maggiore vulnus lo si è evidenziato nella
trattazione degli eventi ovviamente arcaici, dove a volte le leggende si
confondono con i fatti reali, soprattutto se ad oggetto della ricerca storica è
posto un popolo, quello Romano, che vanta all’origine della sua fondazione (753
a. C.), diverse teorie che affondano decisamente nel mitico. Maneggiare le fonti con
cautela e imparzialità è il compito primo di uno storico, tra l’altro come
necessità di un modus operandi più volte richiamato da Cicerone, che in più
passaggi oratori si è soffermato sulla importanza di riportare la verità nella
narrazione storica dei fatti: affermazione che avrebbe avuto una maggiore
efficacia senza la lettera a Lucceio, i cui contenuti verranno più avanti
discussi.