Nel 68 d.C. Tiberio Claudio Cesare Germanico Nerone,
imperatore, si lasciò andare un po’ più del solito ai piaceri dell’arte, della
musica e dei giochi, circondandosi di personaggi molto adulatori ma di pessima
levatura morale come il pretorio Ofenio Tigellino, e altri ancora appartenenti
al mondo ellenico e a quello orientale. Queste genti erano maggiormente
propense a interessarsi di tutti quegli argomenti che facevano parte degli
svaghi dell’imperatore, omaggiandolo artatamente e congratulandosi per lo spirito
artistico che a loro dire arricchiva la grandezza di un popolo già grande. La
plebe in realtà acclamava Nerone innanzitutto per le elargizioni di grano e per
gli spettacoli di pubblica ludicità che garantiva alle folle, mentre alcune
province, come quelle galliche, presentavano forti malumori e le armate
disseminate nell’impero davano segnali di scollamento con il governo centrale,
incarnato in un imperatore in netta discesa nei consensi.
Nella cerchia dei collaboratori del principe, un ruolo
importante lo ebbero i liberti, che in questo periodo occupavano non pochi
posti di vertice nell’amministrazione dell’impero. Ne sono un esempio il
comando della flotta navale di Miseno assegnato nel 59 ad Aniceto, già
precettore di Nerone, ma anche l’affidamento della prefettura dell’annona fu
nelle competenze di un liberto, come del resto il governo della Giudea. Gli optimates
contestavano queste scelte, reclamando su un cotale sistema di nomine un loro
coinvolgimento diretto, diversamente vagheggiando un ritorno alla repubblica e
alle tradizioni romane più autentiche anche nell’assegnazione degli incarichi.
Nerone era inviso e odiato dalla nomenclatura senatoriale e
intellettuale, ma non per questo ebbe a trovarsi di fronte oppositori, perché il
clima era di paura, grazie a un regime pieno di spie e delatori e a un senato
decisamente vile e giorno dopo giorno ridotto nei numeri. I tentativi di congiura erano stati fino a
quel momento praticamente inesistenti.
Nel 65, forse sulla scorta di una realtà fatta di frequenti bassezze
anche giudiziarie che colpivano soprattutto chi aveva cospicue fortune in
denaro, e a un modo d’agire dell’imperatore sempre più sanguinario, i tempi diventarono
difficili pure per Nerone, che incominciò ad essere intollerabile per un
andazzo oramai chiaramente e spiccatamente dittatoriale. Il citaredo rimase
sbalordito dal numero di partecipanti di quella che viene ricordata come la
congiura di Pisone, che vide insieme militari, politici, intellettuali,
scrittori e anche donne. Riuscì a
scampare a questo primo tentativo di rovesciamento del potere, grazie alla
imprudenza della liberta Epicari. Costei si lasciò sfuggire qualche confidenza
di troppo con Proculo, comandante di una trireme a Miseno, che fu l’uomo
sbagliato da tentare di ingaggiare alla causa repubblicana, che la fece subito imprigionare.
La donna anche senza prove fu arrestata e poi straziata con la tortura, ma non confessò
alcunché, contrariamente ad altri protagonisti che reclamavano un posto di
primo piano nella congiura come Scevino. La coraggiosa donna alfine riuscì a
infilarsi un cappio al collo, realizzato con una fascia che le copriva il seno,
impiccandosi (Tacito; Annales, XV,57).
Fu proprio il servo dell’imprudente senatore Scevino, il
liberto Milico, a mettere insieme alcuni indizi, come la necessità rappresentata
dal padrone di affilare un pugnale e di preparare bende pulite, che portarono alla
conclusione che egli si stava prestando per un attentato. Probabilmente qualche
parola captata confermò che l’agguato era in danno a Nerone. Per avidità e con la speranza di entrare
nell’importante entourage dei liberti, Milico, anche su consiglio della scaltra
moglie che ebbe una parte importante in questa faccenda, andò a riferire tutto
all’imperatore, compreso un incontro appartato e compromettente che Scevino
ebbe con Antonio Natale. I due amici congiurati furono prelevati e interrogati
separatamente contraddicendosi, e sotto minaccia di tortura rivelarono tutti i
nomi di quelli che stavano tramando il peggio in danno dell’imperatore, con
Natale che chiamò in causa anche Seneca, e Scevino il prefetto Rufo. Furono
scoperti pure il tribuno Subrio Flavo e il centurione Sulpicio Aspro che
morirono con dignità. Il primo, quando Nerone gli chiese il motivo del
tradimento, rispose:<< Ti odiavo. Nessun soldato ti è stato fedele più
di me, finché hai meritato di essere amato; ho cominciato a odiarti da quando
sei diventato assassino di tua madre e di tua moglie e auriga e istrione e
incendiario>>. I misfatti come dimostra l’evidenza storica, erano ben
conosciuti. Tra l’altro Flavo in una riunione segreta si dichiarò pronto
ad uccidere Nerone ma anche Pisone, per lasciar posto a Seneca, considerato l’unico
degno di indossare la porpora (Tacito; Annali XV,65). Il centurione Aspro invece,
alla stessa domanda posta dall’inquisitore, rispose con decisione che: era
l’unico modo per fermare le infamie di Nerone (Tacito; Annali XV,67).
Queste parole colpirono profondamente l’imperatore, perché furono il segno di profondi
cambiamenti tra i personaggi della nomenclatura e soprattutto dell’esercito,
che incominciavano ad averne abbastanza di un imperatore illiberale.
Tra i congiurati c’era anche il poeta Anneo Lucano, che mal
digerì l’invidia dell’imperatore che gli aveva stroncato la sua opera Farsilia,
proibendogli finanche di leggere in pubblico i lavori letterari. In realtà
questa congiura sembra aver messo in campo personaggi mossi dal desiderio di
ripristino della repubblica contro la tirannide imperiale, ma anche tanti
desiderosi di vendette covate tra l’altro nei confronti di un sanguinario e incendiario
despota, che in non poche famiglie aveva seminato lutti.
Il principale protagonista che storicamente dà il nome alla
congiura del 65 dicevamo è quello di Gaio Calpurnio Pisone, capo carismatico
degli interventisti e buon oratore ma non uomo immacolato, scoperto, si uccise
insieme ad altri sodali. Nerone oltre ad aumentare immediatamente la presenza
delle guardie in ogni dove, contò sempre sui servigi di Tigellino, che gli
portò in catene chiunque poteva essere anche semplicemente accostato ai
congiurati, magari per un saluto o per essersi seduto a un banchetto che
annoverava un indagato. Seneca, il cui coinvolgimento nella
consorteria era probabile ma non chiaramente provato, secondo i principi appena
esposti, subì anch’egli conseguenze estreme come vedremo più avanti. Per altri ci furono gli esili forzati e la perdita
dei beni, ma intanto e da quel momento il factotum Tigellino comandante delle
corti pretoriane, instaurò un vero stato di polizia, che colpì duramente
l’intellighenzia romana e altri personaggi importanti come i senatori Berea
Sorano e Trasea Peto, considerati da tempo fastidiosi alle mire neroniane e già
colpiti dalla renuntiatio amicitiae.
Nerone non tollerava Trasea, perché questi aveva difeso con
successo il pretore Antistio, accusato di lesa maestà per alcuni scritti che
dileggiavano l’imperatore. Il probo senatore rintuzzò le accuse che prevedevano
la pena capitale, tra l’altro invocata da un manipolo di pseudo giustizialisti
togati, tra cui Vitellio futuro imperatore. L’astio tra il senatore e il
Princeps, si alimentò anche dal fatto che Trasea abbandonò la riunione in curia
nel mentre si relazionava sulla morte di Agrippina; e ancora per aver disertato
la seduta in cui bisognava decidere gli onori divini da assegnare a Poppea (Tacito;
Annales; XVI,21). Quest’ultima, seconda moglie dell’imperatore, pur trovandosi
in stato di gravidanza, dallo stesso Nerone fu uccisa con un calcio nel ventre,
salvo poi magnificarla e attribuirle una degna sepoltura nel mausoleo di
Augusto. Capitone Cossuziano, ex governatore della Cilicia, si adoperò insieme
ad altri per far condannare l’incorruttibile Trasea, per il forte rancore che
provava contro costui, reo di averlo fatto soccombere e condannare in un
processo per concussione.
Trasea Peto quindi, personalità onesta e ben vista dal
popolo, fu processato con canoni d’accusa molto simili a quelli che si
utilizzarono contro i cristiani, come il rifiuto del culto imperiale, il ritiro
dalla politica (inertia), il tradimento delle cerimoniae maiorum,
la tristitia e la maestitia.
Il senatore dalla schiena dritta non volle replicare alle
accuse sostenute obtorto collo dai pavidi e togati colleghi, tra l’altro
ulteriormente intimoriti da alcuni reparti di pretoriani che avevano accerchiato
la curia. L’imperatore per rendere ancora più incisivo il suo volere accusatorio,
minacciò i senatori di scarso impegno nella loro attività giudicante paventando
sanzioni: tutti segnali che influenzarono definitivamente il giudizio finale di
condanna. Allora Trasea affermò pubblicamente che “non voleva dire quello
che avrebbe voluto dire sulla morte di Agrippina”, e uscì dall’aula
rifiutando l’aiuto del tribuno della plebe per non condizionarne negativamente
il futuro. I presenti pur sapendo la verità se ne guardarono bene
dall’imitarlo. Addirittura alcuni senatori artatamente incalzarono con foga i
due accusati, movendogli contro la colpa di essere faziosi e ribelli. Com’è
noto invece, Agrippina fu vittima di matricidio ad opera del mandante Nerone,
eppure in quell’ingiusto senato i politici fecero finta di non sapere la
verità, decidendo per puro servilismo, di inserire addirittura la data di
nascita di Agrippina tra quelle nefaste (Tacito; Annales; XIV,12) per l’impero.
A Trasea Peto fu concesso di decidere in che modo volesse
morire, e questi scelse di tagliarsi le vene. Secondo Svetonio, l’imperatore
intese eliminare assurdamente cotale nobile rappresentante del popolo, perché “aveva
l’aria accigliata di un pedagogo”. (Svetonio; vita dei Cesari, libro VI (Nerone),
37). A ricordare al Princeps l’elenco
dei personaggi scomodi da sopprimere, magari approfittando della repressione
allargata indiscriminatamente anche post congiura, ci pensò il senatore Capitone
Cossuziano, genero di Tigellino, losco individuo che aveva assunto senza
riserve lo stile di vita neroniano.
La congiura ebbe forti ripercussioni su esclusioni e nomine
dall’amministrazione pubblica: trovarono quindi posto nell’entourage
dell’imperatore, Petronio Turpiliano e Cocceio Nerva. Il liberto Milico delatore
della congiura, ottenne il premio in denaro e poté fregiarsi del titolo di “salvatore”.
Ninfidio Sabino, che vantava discendenza da Caligola, fu nominato Prefetto del
Pretorio. Tra coloro che pagarono con la morte la partecipazione, vera o
presunta che sia stata alla congiura, c’era anche Gaio Petronio. Questi,
tramite un falso testimone, fu accusato da Tigellino, che non sopportava
l’ascendente che aveva l’eccentrico esteta su Nerone, di essere amico di
Scevino, cioè il congiurato che voleva fisicamente uccidere l’imperatore.
Petronio fu costretto a tagliarsi le vene nella sua villa di Cuma. Prima di
morire però, dando spazio a una prolungata agonia, mandò un testamento
all’imperatore, dove lo accusava di tante oscenità riportando i nomi di tutti coloro
che si erano prestati alle sue indicibili perversioni.
Nel 66 prese corso un’altra congiura detta viciniana, dal
nome del senatore Annio Viciniano. La strategia in questo caso puntava sul
fatto che l’imperatore doveva recarsi in Grecia, e per tale motivo doveva
percorrere la via Appia per raggiungere Brindisi: il piano prevedeva di
sfruttare la sosta a Benevento per colpire. Non si conoscono gli estremi del
fallimento di quest’altra trama, di certo tre importanti comandanti, Corbulone
capo delle legioni in Armenia, e Scribonio Rufo e Scribonio Proculo, comandanti
delle sei legioni stanziate nella Germania, con pretesti vari furono
allontanati dai loro eserciti e costretti a suicidarsi in alternativa
all’esecuzione forzata. Corbulone era uno dei migliori generali dell’impero, e
probabilmente ha dovuto pagare con il sangue la sua parentela con Annio
Viciniano, perché in quei tempi bastava il solo e semplice collegamento
d’amicizia per essere giustiziati come successe tra l’altro a Senzio Saturnino.
I delatores prosperavano sotto Nerone, in quanto avevano la possibilità
di incamerare una quota parte dei beni posseduti dai condannati e dagli
esiliati. Quindi, essere ricchi era già una iattura, e se questa condizione era
associata al dissenso politico o a un vago desiderio di repubblica, venivano
tirate fuori ogni genere di accuse tramite prezzolati e falsi testimoni, in un
contesto dove il potere di veto o di amministrazione della giustizia da parte del
senato, erano praticamente inesistenti tra gli intimoriti senatori.
L’imperatore era l’unico e indiscusso artefice di trame volte al mantenimento
del potere assoluto, avendo pure l’ardire di emettere sentenze di condanna in
casi veramente spudorati, magari senza dare troppa pubblicità all’evento, con una
plebe per sua fortuna facilmente distraibile da giochi e spettacoli vari o da
manifestazioni di grandezza come quelle che accompagnarono la visita di
Tiridate a Roma. Eventi spesso seguiti dal popolo per sfamarsi e divertirsi.
Il 66 fu un anno di purghe dittatoriali, ma anche l’anno in
cui Nerone convolò a nozze con la cugina Statilia Messalina, dopo averne fatto
eliminare il marito, console Attico Vestino, approfittando della reprimenda
pisoniana. Dopo un periodo molto intenso
culminato con l’incoronazione del re vassallo dell’Armenia, Tiridate, Nerone
decise di recarsi in Acaia (Grecia), per coltivare le sue aspirazioni poetiche
in una terra che riteneva meglio comprendesse la sua verve artistica e di
auriga. Con la moglie e un seguito di giovani acculturati avvezzi agli
applausi, ancorché scortati da folte schiere di pretoriani, l’imperatore si
recò nella patria delle muse. Qui prese parte ai giochi istmici ritenuti i più
importanti dell’epoca e che, per suo volere, furono ritardati per dargli il tempo
di arrivare, volendo Nerone racimolare successi soprattutto nel campo dell’arte
e delle gare coi cavalli. Partendo da Roma portò al seguito ogni genere di
attrezzatura per gareggiare nelle sue discipline sportive predilette, così come
i bagagli furono implementati da molte vesti e tra le più disparate, sia di
foggia maschile e femminile, per consentirgli di cimentarsi nell’arte della
recita, della poesia e del bel canto. Il citaredo riuscì a conseguire in terra
ellenica oltre 1800 trofei, a volte senza neanche partecipare alle gare, perché
gli ospitanti non volevano deludere “l’esattore delle tasse” e si guardavano
bene dall’inimicarselo: un grande cantore fu strangolato direttamente sul palco
per evitare che si riconoscesse in lui una indiscussa primeggiatura nel
confronto artistico con Nerone. Non pochi ambasciatori delle cittadine vicine
gli portavano premi, ingraziandoselo e ottenendo in cambio udienza e
partecipazione ai ricchi banchetti. L’imperatore sovente veniva invitato dai furbi
ellenici a deliziarli col suo canto, e questi senza farsi pregare, subito
imbracciava la cetra e cantava, magari con effetto soporifero ad esempio sul
generale Vespasiano, poi allontanato dalla corte. I greci gli riservavano delle
vere ovazioni chiamando in causa e per comparazioni il dio Apollo. Il sublime
però, per niente sprovveduto, pur crogiolandosi in questo delirio collettivo e
festaiolo, non mancò di lasciare al governo di Roma un suo liberto, Elio, personaggio
che godeva dei pieni poteri e che non aveva nulla da imparare in fatto di
crudeltà e ignominia. Il liberto aveva tra l’altro libero arbitrio per
condannare e sequestrare gli averi a tutti coloro che finivano nelle sue
grinfie, senatori compresi.
L’imperatore ancora stanziato in Grecia (67), si portò a
Corinto per inaugurare con una vanga d’oro l’inizio dei lavori per la
realizzazione di un canale artificiale capace di collegare il mar Egeo col mare
Ionio (Svetonio; vita dei Cesari: Nerone, 19). Teneva Nerone a questa
mastodontica opera ingegneristica, in modo che il suo nome sarebbe stato per
grandezza ricordato dai posteri. Nei lavori vennero impiegati soldati e manovalanza
di ogni specie, compreso seimila giudei fatti prigionieri da Vespasiano e
mandati in loco per lavorare allo scavo del canale. L’opera venne ben presto
abbandonata (si completerà nel 1893), anche perché Nerone venne sollecitato dal
suo reggente romano Elio, di fare presto ritorno in patria, evidentemente
perché ancora una volta tirava una brutta aria in termini di trame anti
tirannide. Il Princeps non se ne dolse più di tanto, inebriato da quella cavalcata
di trionfi che gli procurava una straordinaria enfasi. Il liberto Elio si vide
allora costretto a raggiungere personalmente Nerone in Grecia, rincarando a
viva voce gli allarmi su una situazione militare nelle province, che sempre più
risultava preoccupante. A questo punto il principe intese partire per Roma,
incappando in una tempesta che molti marinai auspicavano gli fosse fatale, ma
invece si salvò non lesinando gravi e severe punizioni all’equipaggio iettatore.
Nerone entrò in Roma trionfante, in un clima di massiccia partecipazione del
popolo, che oramai lo acclamava più per timore che per lusinghiero giudizio sul
suo operato. Intanto montò la guerra in
Giudea e Nerone, morto Corbulone, scelse Vespasiano come generale per andare a
sedare i disordini in Palestina. L’imperatore non temeva l’ombra di questo condottiero,
perché non era ricchissimo e le sue origini non erano particolarmente nobili:
si muoveva come un soldato, mangiava come un soldato e vestiva come un soldato.
Nel frattempo nell’Urbe incominciò a dilagare il malumore
dettato da una crescente e indiscriminata tassazione: il popolo era stufo di
pagare i capricci dell’imperatore festaiolo e megalomane. L’esercito, da cui in
modo forse anomalo proveniva in generale il consenso politico, probabilmente
dovuto anche a un senato annichilito, incominciò ad essere insofferente
all’idea di essere governato da un Princeps et dominus, piuttosto incapace e
avvezzo ai divertimenti, che inseguiva il successo poetico e musicale piuttosto
che quello molto più rischioso dei campi di battaglia.
Secondo alcuni storici, il 62 è l’anno della svolta, quello
che segnò la folle deriva teocratica di Nerone, che s’immedesimò in divinità, ignorando
completamente il senato e perdendo letteralmente qualsiasi freno inibitore con
comportamenti spesso irrazionali. Probabilmente influì su questa metamorfosi la
morte del moderato prefetto Afranio Burro, suo consigliere, e il successivo
allontanamento di Seneca dalla corte, per mettersi al riparo, essendo portatore
di segreti, dai pericoli di quella società oramai ingestibile anche da un punto
di vista dell’incolumità personale. Nel 62 occorre annoverare la morte violenta
di Silla e Rubellio Plauto e soprattutto di Ottavia, moglie ripudiata
dell’imperatore, che fu assassinata nella terra di Pandataria, luogo d’esilio,
con grande riprovazione del popolo che rumoreggiò in piazza, e che aveva ben
chiari i motivi e i mandanti dell’omicidio. Alcuni storici non escludono che
queste proteste innescarono in Nerone la volontà di vendicarsi dei disordini
attraverso il fuoco. Seneca rimase quindi profondamente turbato e rammaricato e
intimorito dalla crudeltà del Princeps, anche sulla scorta delle terribili
punizioni inflitte ai cristiani ingiustamente accusati di aver appiccato il
terribile incendio che distrusse gran parte dell’Urbe nel 64.
Nel 65 Seneca fu accusato di aver fatto parte della
congiura di Pisone, ricevendo quindi l’imposizione al suicidio, ottenuto anche
in questo caso attraverso il taglio delle vene di polsi e gambe: lo stoico
consigliere dell’imperatore, alla fine dovette immergersi in una vasca d’acqua
calda per accelerare un dissanguamento che stentava a progredire, in un clima
di forte rassegnazione, di stoicismo appunto, forse con una pace interiore
dettata da un inizio di conoscenza della fede cristiana: il fratello di Seneca infatti,
giudicò l’apostolo Paolo senza infierire. La moglie di Seneca, Paolina, tentò
di emulare il gesto estremo del marito, ma per ordine di Nerone fu salvata: non
per pietà, ma per non inimicarsi oltremisura l’ira del popolo (Tacito; Annales;
XV,64), già sperimentata in precedenza con la morte di Ottavia: un popolo che incominciava
a destarsi vedendo troppe illustri persone fare una brutta fine per mano degli
scagnozzi del sistema.
Nel 68 Servio Sulpicio Galba, governatore della Spagna
Tarraconese, ricevette l’invito di Giulio Vindice governatore della Gallia
Lugdunensis, ad assumere la porpora di Princeps al posto di Nerone,
anticipandogli giuramento di fedeltà e la dote di molti militari in armi. Per dare spazio a questa volontà di
destituire l’imperatore, Vindice convocò la riunione del consiglio delle tre
Gallie pronunciando un discorso che oggi definiremmo eversivo e tagliente, e
pubblicò nel suo territorio di pertinenza proclami in cui Nerone veniva
chiamato col suo cognome paterno, Enobarbo, e classificato a somma del ridicolo
un pessimo suonatore di cetra: non c’era offesa più grande! Occorre segnalare
però, che anche nelle Gallie non tutte le città si dichiararono pro Vindice,
tant’è che le contee di Treveri, Langres e soprattutto Lione, città dove si
coniavano le monete per pagare i militari ancorché assediata da Vindice, non
intesero ribellarsi al governo di Roma.
Galba ricevuto il messaggio si mosse con molta timidezza,
ma in ogni caso senza esprimere commenti e senza segnalare e attendere
istruzioni dall’imperatore: la sua posizione potremmo definirla di pesce in
barile. Non si può escludere che la notizia magari indirettamente sia pervenuta
anche a Verginio Rufo, comandante dell’esercito in Germania, e che questi abbia
ritardato il suo intervento contro i Galli rivoltosi, in attesa di meglio
capire le intenzioni degli schieramenti militari, soprattutto di quello
ispanico di Galba maggiormente temibile.
Intanto Nerone si trovava a Napoli per l’anniversario della
morte di Agrippina, lasciandosi andare ai suoi ludici passatempi preferiti,
quando gli giunse la notizia dell’insurrezione di Vindice e dei suoi proclami
eversivi. Per fronteggiare questa minaccia, dopo otto giorni di silenzio Nerone
decise di rientrare a Roma radunando non già il senato ma la sua corte di
palazzo sbraitando e andando in escandescenza. Quivi decise di dare
disposizioni acchè le forze illiriche marciassero contro Vindice. Il
governatore della Germania Superiore, Lucio Verginio Rufo, con le sue legioni e
con un ritardo appena un po’ sospetto, non si capisce se per motu proprio o per
ordini dell’imperatore, entrò nella Gallia e massacrò le truppe di Vindice a
Besancon. Forse Rufo e Vindice erano arrivati a un accordo, che non fu recepito dalle truppe anche in
ragione di un certo astio che i regolari romani avevano nei confronti dei
mercenari
gallici. Lo scontro inatteso da questi ultimi, fu di totale disfatta per Vindice,
che al termine dei cruenti scontri con ventimila caduti, preferì togliersi la
vita. Secondo un costume che stava prendendo piega, Verginio Rufo venne
acclamato imperatore dalle sue truppe, ma egli declinò l’invito ripetendo che
la nomina imperiale poteva provenire solo dal senato o dal popolo romano.
Galba dal canto suo indirizzò cauti messaggi a Verginio
Rufo affinché si adoperassero insieme per ristabilire principi di auspicata libertà
abbattendo il tiranno. Non si sa la risposta di Rufo, ad ogni buon conto
l’anziano Galba aspettandosi il peggio o forse per mettersi in una posizione di
difesa, riparò nella cittadina di Clunia in Spagna attendendo mestamente gli
eventi, in ultima analisi meditando pure il suicidio se si fosse visto perso.
Nerone capì che la situazione evolveva negativamente non quando seppe che le
truppe di Galba nella Spagna Tarraconese si erano sollevate contro di lui, ma
quando intese che le defezioni riguardavano anche le schiere di Rufo. Nerone a
queste notizie sopraffatto dalla paura non sapeva quale strategia mettere in
campo per salvarsi, valutando anche quelle estreme che facessero capo al suo
talento teatrale per commuovere le truppe ribelli portandole al pianto e al
perdono. Intanto il liberto Ninfidio Sabino Prefetto del Pretorio, valutò che
la situazione forse era matura per abbattere la tirannide. Fece credere a tutti
che Nerone era scappato da Roma e promise un congruo premio in denaro ai
pretoriani se avessero acclamato Galba imperatore. Il senato dopo queste
manifestazioni d’interesse e le notizie di rivolta di alcune legioni, colse la
palla al volo e si affrettò a dichiarare Nerone hostis publicus, con la
conseguenza che chiunque poteva prenderlo e frustarlo a morte. Saputo della
condanna e delle sue modalità esecutive, braccato come un animale ferito, il destituito
imperatore riparò presso il liberto Faone. Non resistendo all’angoscia della
caccia all’uomo e della tortura che si prospettava, appena ebbe sentore
dell’arrivo delle guardie si suicidò di spada aiutato in questo gesto estremo
dal liberto Epafrodito. Le ultime parole del trentunenne imperatore morto il 9
giugno del 68 furono:<< Qualis artifex pereo (Quale artista muore
con me!)>>. (Svetonio, Vita di
Nerone, 44). Fu sepolto dalla liberta Atte e la sua tomba spesso veniva
ricoperta di fiori da quella parte del popolo lontano dalle trame del potere e
del palazzo, che rimpiangeva con quella dipartita soprattutto le lotte
gladiatorie e altri spettacoli circensi, dove la presenza di Nerone assicurava pane
e divertimento (panem et circenses).