sabato 13 giugno 2020

Gli ultimi anni di Nerone



Nel 68 d.C. Tiberio Claudio Cesare Germanico Nerone, imperatore, si lasciò andare un po’ più del solito ai piaceri dell’arte, della musica e dei giochi, circondandosi di personaggi molto adulatori ma di pessima levatura morale come il pretorio Ofenio Tigellino, e altri ancora appartenenti al mondo ellenico e a quello orientale. Queste genti erano maggiormente propense a interessarsi di tutti quegli argomenti che facevano parte degli svaghi dell’imperatore, omaggiandolo artatamente e congratulandosi per lo spirito artistico che a loro dire arricchiva la grandezza di un popolo già grande. La plebe in realtà acclamava Nerone innanzitutto per le elargizioni di grano e per gli spettacoli di pubblica ludicità che garantiva alle folle, mentre alcune province, come quelle galliche, presentavano forti malumori e le armate disseminate nell’impero davano segnali di scollamento con il governo centrale, incarnato in un imperatore in netta discesa nei consensi.
Nella cerchia dei collaboratori del principe, un ruolo importante lo ebbero i liberti, che in questo periodo occupavano non pochi posti di vertice nell’amministrazione dell’impero. Ne sono un esempio il comando della flotta navale di Miseno assegnato nel 59 ad Aniceto, già precettore di Nerone, ma anche l’affidamento della prefettura dell’annona fu nelle competenze di un liberto, come del resto il governo della Giudea. Gli optimates contestavano queste scelte, reclamando su un cotale sistema di nomine un loro coinvolgimento diretto, diversamente vagheggiando un ritorno alla repubblica e alle tradizioni romane più autentiche anche nell’assegnazione degli incarichi.
Nerone era inviso e odiato dalla nomenclatura senatoriale e intellettuale, ma non per questo ebbe a trovarsi di fronte oppositori, perché il clima era di paura, grazie a un regime pieno di spie e delatori e a un senato decisamente vile e giorno dopo giorno ridotto nei numeri.  I tentativi di congiura erano stati fino a quel momento praticamente inesistenti.  Nel 65, forse sulla scorta di una realtà fatta di frequenti bassezze anche giudiziarie che colpivano soprattutto chi aveva cospicue fortune in denaro, e a un modo d’agire dell’imperatore sempre più sanguinario, i tempi diventarono difficili pure per Nerone, che incominciò ad essere intollerabile per un andazzo oramai chiaramente e spiccatamente dittatoriale. Il citaredo rimase sbalordito dal numero di partecipanti di quella che viene ricordata come la congiura di Pisone, che vide insieme militari, politici, intellettuali, scrittori e anche donne.  Riuscì a scampare a questo primo tentativo di rovesciamento del potere, grazie alla imprudenza della liberta Epicari. Costei si lasciò sfuggire qualche confidenza di troppo con Proculo, comandante di una trireme a Miseno, che fu l’uomo sbagliato da tentare di ingaggiare alla causa repubblicana, che la fece subito imprigionare. La donna anche senza prove fu arrestata e poi straziata con la tortura, ma non confessò alcunché, contrariamente ad altri protagonisti che reclamavano un posto di primo piano nella congiura come Scevino. La coraggiosa donna alfine riuscì a infilarsi un cappio al collo, realizzato con una fascia che le copriva il seno, impiccandosi (Tacito; Annales, XV,57). 
Fu proprio il servo dell’imprudente senatore Scevino, il liberto Milico, a mettere insieme alcuni indizi, come la necessità rappresentata dal padrone di affilare un pugnale e di preparare bende pulite, che portarono alla conclusione che egli si stava prestando per un attentato. Probabilmente qualche parola captata confermò che l’agguato era in danno a Nerone.  Per avidità e con la speranza di entrare nell’importante entourage dei liberti, Milico, anche su consiglio della scaltra moglie che ebbe una parte importante in questa faccenda, andò a riferire tutto all’imperatore, compreso un incontro appartato e compromettente che Scevino ebbe con Antonio Natale. I due amici congiurati furono prelevati e interrogati separatamente contraddicendosi, e sotto minaccia di tortura rivelarono tutti i nomi di quelli che stavano tramando il peggio in danno dell’imperatore, con Natale che chiamò in causa anche Seneca, e Scevino il prefetto Rufo. Furono scoperti pure il tribuno Subrio Flavo e il centurione Sulpicio Aspro che morirono con dignità. Il primo, quando Nerone gli chiese il motivo del tradimento, rispose:<< Ti odiavo. Nessun soldato ti è stato fedele più di me, finché hai meritato di essere amato; ho cominciato a odiarti da quando sei diventato assassino di tua madre e di tua moglie e auriga e istrione e incendiario>>. I misfatti come dimostra l’evidenza storica, erano ben conosciuti. Tra l’altro Flavo in una riunione segreta si dichiarò pronto ad uccidere Nerone ma anche Pisone, per lasciar posto a Seneca, considerato l’unico degno di indossare la porpora (Tacito; Annali XV,65). Il centurione Aspro invece, alla stessa domanda posta dall’inquisitore, rispose con decisione che: era l’unico modo per fermare le infamie di Nerone (Tacito; Annali XV,67). Queste parole colpirono profondamente l’imperatore, perché furono il segno di profondi cambiamenti tra i personaggi della nomenclatura e soprattutto dell’esercito, che incominciavano ad averne abbastanza di un imperatore illiberale.
Tra i congiurati c’era anche il poeta Anneo Lucano, che mal digerì l’invidia dell’imperatore che gli aveva stroncato la sua opera Farsilia, proibendogli finanche di leggere in pubblico i lavori letterari. In realtà questa congiura sembra aver messo in campo personaggi mossi dal desiderio di ripristino della repubblica contro la tirannide imperiale, ma anche tanti desiderosi di vendette covate tra l’altro nei confronti di un sanguinario e incendiario despota, che in non poche famiglie aveva seminato lutti.
Il principale protagonista che storicamente dà il nome alla congiura del 65 dicevamo è quello di Gaio Calpurnio Pisone, capo carismatico degli interventisti e buon oratore ma non uomo immacolato, scoperto, si uccise insieme ad altri sodali. Nerone oltre ad aumentare immediatamente la presenza delle guardie in ogni dove, contò sempre sui servigi di Tigellino, che gli portò in catene chiunque poteva essere anche semplicemente accostato ai congiurati, magari per un saluto o per essersi seduto a un banchetto che annoverava un indagato. Seneca, il cui coinvolgimento nella consorteria era probabile ma non chiaramente provato, secondo i principi appena esposti, subì anch’egli conseguenze estreme come vedremo più avanti.   Per altri ci furono gli esili forzati e la perdita dei beni, ma intanto e da quel momento il factotum Tigellino comandante delle corti pretoriane, instaurò un vero stato di polizia, che colpì duramente l’intellighenzia romana e altri personaggi importanti come i senatori Berea Sorano e Trasea Peto, considerati da tempo fastidiosi alle mire neroniane e già colpiti dalla renuntiatio amicitiae.
Nerone non tollerava Trasea, perché questi aveva difeso con successo il pretore Antistio, accusato di lesa maestà per alcuni scritti che dileggiavano l’imperatore. Il probo senatore rintuzzò le accuse che prevedevano la pena capitale, tra l’altro invocata da un manipolo di pseudo giustizialisti togati, tra cui Vitellio futuro imperatore. L’astio tra il senatore e il Princeps, si alimentò anche dal fatto che Trasea abbandonò la riunione in curia nel mentre si relazionava sulla morte di Agrippina; e ancora per aver disertato la seduta in cui bisognava decidere gli onori divini da assegnare a Poppea (Tacito; Annales; XVI,21). Quest’ultima, seconda moglie dell’imperatore, pur trovandosi in stato di gravidanza, dallo stesso Nerone fu uccisa con un calcio nel ventre, salvo poi magnificarla e attribuirle una degna sepoltura nel mausoleo di Augusto. Capitone Cossuziano, ex governatore della Cilicia, si adoperò insieme ad altri per far condannare l’incorruttibile Trasea, per il forte rancore che provava contro costui, reo di averlo fatto soccombere e condannare in un processo per concussione.
Trasea Peto quindi, personalità onesta e ben vista dal popolo, fu processato con canoni d’accusa molto simili a quelli che si utilizzarono contro i cristiani, come il rifiuto del culto imperiale, il ritiro dalla politica (inertia), il tradimento delle cerimoniae maiorum, la tristitia e la maestitia.
Il senatore dalla schiena dritta non volle replicare alle accuse sostenute obtorto collo dai pavidi e togati colleghi, tra l’altro ulteriormente intimoriti da alcuni reparti di pretoriani che avevano accerchiato la curia. L’imperatore per rendere ancora più incisivo il suo volere accusatorio, minacciò i senatori di scarso impegno nella loro attività giudicante paventando sanzioni: tutti segnali che influenzarono definitivamente il giudizio finale di condanna. Allora Trasea affermò pubblicamente che “non voleva dire quello che avrebbe voluto dire sulla morte di Agrippina”, e uscì dall’aula rifiutando l’aiuto del tribuno della plebe per non condizionarne negativamente il futuro. I presenti pur sapendo la verità se ne guardarono bene dall’imitarlo. Addirittura alcuni senatori artatamente incalzarono con foga i due accusati, movendogli contro la colpa di essere faziosi e ribelli. Com’è noto invece, Agrippina fu vittima di matricidio ad opera del mandante Nerone, eppure in quell’ingiusto senato i politici fecero finta di non sapere la verità, decidendo per puro servilismo, di inserire addirittura la data di nascita di Agrippina tra quelle nefaste (Tacito; Annales; XIV,12) per l’impero.
A Trasea Peto fu concesso di decidere in che modo volesse morire, e questi scelse di tagliarsi le vene. Secondo Svetonio, l’imperatore intese eliminare assurdamente cotale nobile rappresentante del popolo, perché “aveva l’aria accigliata di un pedagogo”. (Svetonio; vita dei Cesari, libro VI (Nerone), 37).  A ricordare al Princeps l’elenco dei personaggi scomodi da sopprimere, magari approfittando della repressione allargata indiscriminatamente anche post congiura, ci pensò il senatore Capitone Cossuziano, genero di Tigellino, losco individuo che aveva assunto senza riserve lo stile di vita neroniano.
La congiura ebbe forti ripercussioni su esclusioni e nomine dall’amministrazione pubblica: trovarono quindi posto nell’entourage dell’imperatore, Petronio Turpiliano e Cocceio Nerva. Il liberto Milico delatore della congiura, ottenne il premio in denaro e poté fregiarsi del titolo di “salvatore. Ninfidio Sabino, che vantava discendenza da Caligola, fu nominato Prefetto del Pretorio. Tra coloro che pagarono con la morte la partecipazione, vera o presunta che sia stata alla congiura, c’era anche Gaio Petronio. Questi, tramite un falso testimone, fu accusato da Tigellino, che non sopportava l’ascendente che aveva l’eccentrico esteta su Nerone, di essere amico di Scevino, cioè il congiurato che voleva fisicamente uccidere l’imperatore. Petronio fu costretto a tagliarsi le vene nella sua villa di Cuma. Prima di morire però, dando spazio a una prolungata agonia, mandò un testamento all’imperatore, dove lo accusava di tante oscenità riportando i nomi di tutti coloro che si erano prestati alle sue indicibili perversioni. 
Nel 66 prese corso un’altra congiura detta viciniana, dal nome del senatore Annio Viciniano. La strategia in questo caso puntava sul fatto che l’imperatore doveva recarsi in Grecia, e per tale motivo doveva percorrere la via Appia per raggiungere Brindisi: il piano prevedeva di sfruttare la sosta a Benevento per colpire. Non si conoscono gli estremi del fallimento di quest’altra trama, di certo tre importanti comandanti, Corbulone capo delle legioni in Armenia, e Scribonio Rufo e Scribonio Proculo, comandanti delle sei legioni stanziate nella Germania, con pretesti vari furono allontanati dai loro eserciti e costretti a suicidarsi in alternativa all’esecuzione forzata. Corbulone era uno dei migliori generali dell’impero, e probabilmente ha dovuto pagare con il sangue la sua parentela con Annio Viciniano, perché in quei tempi bastava il solo e semplice collegamento d’amicizia per essere giustiziati come successe tra l’altro a Senzio Saturnino. I delatores prosperavano sotto Nerone, in quanto avevano la possibilità di incamerare una quota parte dei beni posseduti dai condannati e dagli esiliati. Quindi, essere ricchi era già una iattura, e se questa condizione era associata al dissenso politico o a un vago desiderio di repubblica, venivano tirate fuori ogni genere di accuse tramite prezzolati e falsi testimoni, in un contesto dove il potere di veto o di amministrazione della giustizia da parte del senato, erano praticamente inesistenti tra gli intimoriti senatori. L’imperatore era l’unico e indiscusso artefice di trame volte al mantenimento del potere assoluto, avendo pure l’ardire di emettere sentenze di condanna in casi veramente spudorati, magari senza dare troppa pubblicità all’evento, con una plebe per sua fortuna facilmente distraibile da giochi e spettacoli vari o da manifestazioni di grandezza come quelle che accompagnarono la visita di Tiridate a Roma. Eventi spesso seguiti dal popolo per sfamarsi e divertirsi.
Il 66 fu un anno di purghe dittatoriali, ma anche l’anno in cui Nerone convolò a nozze con la cugina Statilia Messalina, dopo averne fatto eliminare il marito, console Attico Vestino, approfittando della reprimenda pisoniana.  Dopo un periodo molto intenso culminato con l’incoronazione del re vassallo dell’Armenia, Tiridate, Nerone decise di recarsi in Acaia (Grecia), per coltivare le sue aspirazioni poetiche in una terra che riteneva meglio comprendesse la sua verve artistica e di auriga. Con la moglie e un seguito di giovani acculturati avvezzi agli applausi, ancorché scortati da folte schiere di pretoriani, l’imperatore si recò nella patria delle muse. Qui prese parte ai giochi istmici ritenuti i più importanti dell’epoca e che, per suo volere, furono ritardati per dargli il tempo di arrivare, volendo Nerone racimolare successi soprattutto nel campo dell’arte e delle gare coi cavalli. Partendo da Roma portò al seguito ogni genere di attrezzatura per gareggiare nelle sue discipline sportive predilette, così come i bagagli furono implementati da molte vesti e tra le più disparate, sia di foggia maschile e femminile, per consentirgli di cimentarsi nell’arte della recita, della poesia e del bel canto. Il citaredo riuscì a conseguire in terra ellenica oltre 1800 trofei, a volte senza neanche partecipare alle gare, perché gli ospitanti non volevano deludere “l’esattore delle tasse” e si guardavano bene dall’inimicarselo: un grande cantore fu strangolato direttamente sul palco per evitare che si riconoscesse in lui una indiscussa primeggiatura nel confronto artistico con Nerone. Non pochi ambasciatori delle cittadine vicine gli portavano premi, ingraziandoselo e ottenendo in cambio udienza e partecipazione ai ricchi banchetti. L’imperatore sovente veniva invitato dai furbi ellenici a deliziarli col suo canto, e questi senza farsi pregare, subito imbracciava la cetra e cantava, magari con effetto soporifero ad esempio sul generale Vespasiano, poi allontanato dalla corte. I greci gli riservavano delle vere ovazioni chiamando in causa e per comparazioni il dio Apollo. Il sublime però, per niente sprovveduto, pur crogiolandosi in questo delirio collettivo e festaiolo, non mancò di lasciare al governo di Roma un suo liberto, Elio, personaggio che godeva dei pieni poteri e che non aveva nulla da imparare in fatto di crudeltà e ignominia. Il liberto aveva tra l’altro libero arbitrio per condannare e sequestrare gli averi a tutti coloro che finivano nelle sue grinfie, senatori compresi.
L’imperatore ancora stanziato in Grecia (67), si portò a Corinto per inaugurare con una vanga d’oro l’inizio dei lavori per la realizzazione di un canale artificiale capace di collegare il mar Egeo col mare Ionio (Svetonio; vita dei Cesari: Nerone, 19). Teneva Nerone a questa mastodontica opera ingegneristica, in modo che il suo nome sarebbe stato per grandezza ricordato dai posteri. Nei lavori vennero impiegati soldati e manovalanza di ogni specie, compreso seimila giudei fatti prigionieri da Vespasiano e mandati in loco per lavorare allo scavo del canale. L’opera venne ben presto abbandonata (si completerà nel 1893), anche perché Nerone venne sollecitato dal suo reggente romano Elio, di fare presto ritorno in patria, evidentemente perché ancora una volta tirava una brutta aria in termini di trame anti tirannide. Il Princeps non se ne dolse più di tanto, inebriato da quella cavalcata di trionfi che gli procurava una straordinaria enfasi. Il liberto Elio si vide allora costretto a raggiungere personalmente Nerone in Grecia, rincarando a viva voce gli allarmi su una situazione militare nelle province, che sempre più risultava preoccupante. A questo punto il principe intese partire per Roma, incappando in una tempesta che molti marinai auspicavano gli fosse fatale, ma invece si salvò non lesinando gravi e severe punizioni all’equipaggio iettatore. Nerone entrò in Roma trionfante, in un clima di massiccia partecipazione del popolo, che oramai lo acclamava più per timore che per lusinghiero giudizio sul suo operato.  Intanto montò la guerra in Giudea e Nerone, morto Corbulone, scelse Vespasiano come generale per andare a sedare i disordini in Palestina. L’imperatore non temeva l’ombra di questo condottiero, perché non era ricchissimo e le sue origini non erano particolarmente nobili: si muoveva come un soldato, mangiava come un soldato e vestiva come un soldato.
Nel frattempo nell’Urbe incominciò a dilagare il malumore dettato da una crescente e indiscriminata tassazione: il popolo era stufo di pagare i capricci dell’imperatore festaiolo e megalomane. L’esercito, da cui in modo forse anomalo proveniva in generale il consenso politico, probabilmente dovuto anche a un senato annichilito, incominciò ad essere insofferente all’idea di essere governato da un Princeps et dominus, piuttosto incapace e avvezzo ai divertimenti, che inseguiva il successo poetico e musicale piuttosto che quello molto più rischioso dei campi di battaglia.
Secondo alcuni storici, il 62 è l’anno della svolta, quello che segnò la folle deriva teocratica di Nerone, che s’immedesimò in divinità, ignorando completamente il senato e perdendo letteralmente qualsiasi freno inibitore con comportamenti spesso irrazionali. Probabilmente influì su questa metamorfosi la morte del moderato prefetto Afranio Burro, suo consigliere, e il successivo allontanamento di Seneca dalla corte, per mettersi al riparo, essendo portatore di segreti, dai pericoli di quella società oramai ingestibile anche da un punto di vista dell’incolumità personale. Nel 62 occorre annoverare la morte violenta di Silla e Rubellio Plauto e soprattutto di Ottavia, moglie ripudiata dell’imperatore, che fu assassinata nella terra di Pandataria, luogo d’esilio, con grande riprovazione del popolo che rumoreggiò in piazza, e che aveva ben chiari i motivi e i mandanti dell’omicidio. Alcuni storici non escludono che queste proteste innescarono in Nerone la volontà di vendicarsi dei disordini attraverso il fuoco. Seneca rimase quindi profondamente turbato e rammaricato e intimorito dalla crudeltà del Princeps, anche sulla scorta delle terribili punizioni inflitte ai cristiani ingiustamente accusati di aver appiccato il terribile incendio che distrusse gran parte dell’Urbe nel 64.  
Nel 65 Seneca fu accusato di aver fatto parte della congiura di Pisone, ricevendo quindi l’imposizione al suicidio, ottenuto anche in questo caso attraverso il taglio delle vene di polsi e gambe: lo stoico consigliere dell’imperatore, alla fine dovette immergersi in una vasca d’acqua calda per accelerare un dissanguamento che stentava a progredire, in un clima di forte rassegnazione, di stoicismo appunto, forse con una pace interiore dettata da un inizio di conoscenza della fede cristiana: il fratello di Seneca infatti, giudicò l’apostolo Paolo senza infierire. La moglie di Seneca, Paolina, tentò di emulare il gesto estremo del marito, ma per ordine di Nerone fu salvata: non per pietà, ma per non inimicarsi oltremisura l’ira del popolo (Tacito; Annales; XV,64), già sperimentata in precedenza con la morte di Ottavia: un popolo che incominciava a destarsi vedendo troppe illustri persone fare una brutta fine per mano degli scagnozzi del sistema.
Nel 68 Servio Sulpicio Galba, governatore della Spagna Tarraconese, ricevette l’invito di Giulio Vindice governatore della Gallia Lugdunensis, ad assumere la porpora di Princeps al posto di Nerone, anticipandogli giuramento di fedeltà e la dote di molti militari in armi.  Per dare spazio a questa volontà di destituire l’imperatore, Vindice convocò la riunione del consiglio delle tre Gallie pronunciando un discorso che oggi definiremmo eversivo e tagliente, e pubblicò nel suo territorio di pertinenza proclami in cui Nerone veniva chiamato col suo cognome paterno, Enobarbo, e classificato a somma del ridicolo un pessimo suonatore di cetra: non c’era offesa più grande! Occorre segnalare però, che anche nelle Gallie non tutte le città si dichiararono pro Vindice, tant’è che le contee di Treveri, Langres e soprattutto Lione, città dove si coniavano le monete per pagare i militari ancorché assediata da Vindice, non intesero ribellarsi al governo di Roma.
Galba ricevuto il messaggio si mosse con molta timidezza, ma in ogni caso senza esprimere commenti e senza segnalare e attendere istruzioni dall’imperatore: la sua posizione potremmo definirla di pesce in barile. Non si può escludere che la notizia magari indirettamente sia pervenuta anche a Verginio Rufo, comandante dell’esercito in Germania, e che questi abbia ritardato il suo intervento contro i Galli rivoltosi, in attesa di meglio capire le intenzioni degli schieramenti militari, soprattutto di quello ispanico di Galba maggiormente temibile.
Intanto Nerone si trovava a Napoli per l’anniversario della morte di Agrippina, lasciandosi andare ai suoi ludici passatempi preferiti, quando gli giunse la notizia dell’insurrezione di Vindice e dei suoi proclami eversivi. Per fronteggiare questa minaccia, dopo otto giorni di silenzio Nerone decise di rientrare a Roma radunando non già il senato ma la sua corte di palazzo sbraitando e andando in escandescenza. Quivi decise di dare disposizioni acchè le forze illiriche marciassero contro Vindice. Il governatore della Germania Superiore, Lucio Verginio Rufo, con le sue legioni e con un ritardo appena un po’ sospetto, non si capisce se per motu proprio o per ordini dell’imperatore, entrò nella Gallia e massacrò le truppe di Vindice a Besancon. Forse Rufo e Vindice erano arrivati a un accordo, che non fu recepito dalle truppe anche in ragione di un certo astio che i regolari romani avevano nei confronti dei mercenari gallici. Lo scontro inatteso da questi ultimi, fu di totale disfatta per Vindice, che al termine dei cruenti scontri con ventimila caduti, preferì togliersi la vita. Secondo un costume che stava prendendo piega, Verginio Rufo venne acclamato imperatore dalle sue truppe, ma egli declinò l’invito ripetendo che la nomina imperiale poteva provenire solo dal senato o dal popolo romano.
Galba dal canto suo indirizzò cauti messaggi a Verginio Rufo affinché si adoperassero insieme per ristabilire principi di auspicata libertà abbattendo il tiranno. Non si sa la risposta di Rufo, ad ogni buon conto l’anziano Galba aspettandosi il peggio o forse per mettersi in una posizione di difesa, riparò nella cittadina di Clunia in Spagna attendendo mestamente gli eventi, in ultima analisi meditando pure il suicidio se si fosse visto perso. Nerone capì che la situazione evolveva negativamente non quando seppe che le truppe di Galba nella Spagna Tarraconese si erano sollevate contro di lui, ma quando intese che le defezioni riguardavano anche le schiere di Rufo. Nerone a queste notizie sopraffatto dalla paura non sapeva quale strategia mettere in campo per salvarsi, valutando anche quelle estreme che facessero capo al suo talento teatrale per commuovere le truppe ribelli portandole al pianto e al perdono. Intanto il liberto Ninfidio Sabino Prefetto del Pretorio, valutò che la situazione forse era matura per abbattere la tirannide. Fece credere a tutti che Nerone era scappato da Roma e promise un congruo premio in denaro ai pretoriani se avessero acclamato Galba imperatore. Il senato dopo queste manifestazioni d’interesse e le notizie di rivolta di alcune legioni, colse la palla al volo e si affrettò a dichiarare Nerone hostis publicus, con la conseguenza che chiunque poteva prenderlo e frustarlo a morte. Saputo della condanna e delle sue modalità esecutive, braccato come un animale ferito, il destituito imperatore riparò presso il liberto Faone. Non resistendo all’angoscia della caccia all’uomo e della tortura che si prospettava, appena ebbe sentore dell’arrivo delle guardie si suicidò di spada aiutato in questo gesto estremo dal liberto Epafrodito. Le ultime parole del trentunenne imperatore morto il 9 giugno del 68 furono:<< Qualis artifex pereo (Quale artista muore con me!)>>.  (Svetonio, Vita di Nerone, 44). Fu sepolto dalla liberta Atte e la sua tomba spesso veniva ricoperta di fiori da quella parte del popolo lontano dalle trame del potere e del palazzo, che rimpiangeva con quella dipartita soprattutto le lotte gladiatorie e altri spettacoli circensi, dove la presenza di Nerone assicurava pane e divertimento (panem et circenses).

giovedì 27 dicembre 2018

Marco Tullio Cicerone: l'imbattibile oratore... di MalKa


                                              
        

Marco Tullio Cicerone proveniva da una famiglia che si fregiava dello status di equestre. Non avendo alcun legame con l’oligarchia senatoriale romana, poteva considerarsi un homo novus[1], cioè un uomo che non aveva ricoperto cariche pubbliche.

Il grande successo di Cicerone e della sua eloquenza illuminata, lo portò ad occupare tutti i livelli previsti dal cursus honorum e, motivo di orgoglio, al minimo dell’età prevista: fu quindi console a 42 anni.

La sua capacità retorica unita a un innato buonsenso, lo avevano inizialmente reso avverso all'oligarchia portandolo su una posizione di centro. Purtuttavia avversò con pari fermezza nell'anno del suo consolato (63 a. C.), anche quelle proposte a cura dei popolari, che riteneva eccessive, opponendosi così (Plut., Cic., 12,2) alla legge agraria (De lege agraria) del tribuno Servilio Rullo, che intendeva distribuire terre ai veterani di Pompeo. In questo periodo difese il senatore Gaio Rabirio dall’accusa di alto tradimento contro lo stato, per l’episodio dell’uccisione di Saturnino trentacinque anni prima.

Catilina si dimostrò il più pericoloso degli avversari politici, tra l’altro sostenuto non si sa con quanta determinazione da Crasso e da Cesare, che aveva vinto per pochi voti di scarto le elezioni a console. Dopodiché Crasso, quando la congiura di Catilina venne alla luce, rivide immediatamente il suo appoggio portandosi su posizioni di “pentito” mentre Cesare stranamente passò indenne quel momento critico. Le trame del cospiratore furono comunque svelate, come quella di giungere al potere attraverso la strada della congiura, compiendo un eccidio a Roma e una insurrezione in Toscana.

Il console venuto a conoscenza di questa trama, denunciò Catilina davanti al senato riunito nel tempio di Giove Statore, pronunciando il 7 novembre del 63 a.C. la prima delle famose arringhe (Catilinarie). L’accusato, smascherato, fuggì subito in Toscana. Saltò fuori, però, che i congiurati avevano contattato gli Allobrogi, antico e bellicoso popolo della Gallia, affinchè attaccassero i Romani alle spalle durante l’insurrezione nell’Urbe. Cicerone raccolse le prove che gli servivano, grazie anche a un potere accresciuto dall’emergenza civile, e fece giustiziare i congiurati organizzando poi una campagna militare per sconfiggere le truppe di Catilina a Pistoia.


Catilina al senato.

Nell’Urbe i congiurati che tramavano nell’ombra furono smascherati e, nonostante il parere contrario di Cesare, furono giustiziati senza che gli venisse concessa la provocatio ad populum, ovvero l’appello al popolo per sperare in una pena detentiva e non capitale. Questo episodio costò, su proposta di Clodio, l’esilio di Cicerone perché come magistrato aveva fatto giustiziare anche gli aristocratici romani coinvolti nella congiura di Catilina, senza consentir loro di accedere all’istituto della provocatio ad populum, magari come extrema ratio per scampare alla pena di morte (58 a.C.).

Cicerone supplicò Pompeo per evitare l’esilio, ma quest’ultimo gli riferì di non poterlo graziare perché non voleva mettersi contro il volere di Cesare. L’Arpinate decise quindi di lasciare Roma, non prima di aver portato una piccola statua domestica di Minerva al Campidoglio, ponendola nel tempio di Giove, con la speranza di essere con quel simbolo ricordato.

Tornò dall'esilio un anno dopo, in un contesto caratterizzato dallo scontro politico tra Cesare e Pompeo sui temi ad oggetto l’esercizio del potere: in tale situazione si crearono due fazioni capeggiate per i popolari dal tribuno della plebe Clodio, favorevole a Cesare, e per gli ottimati dal tribuno Milone.

Clodio nutriva una profonda avversione verso Cicerone, non perdendo occasione per attaccarlo nelle assemblee pubbliche. Tra l’altro bisogna dire che Clodio precedentemente fu un alleato nella lotta contro Catilina. Probabilmente l’astio tra i due sorse in seguito allo scandalo della Bona Dea, quando Cicerone demolì l’alibi di Clodio processato per essersi intrufolato scandalosamente sotto mentite spoglie femminili nella casa di Cesare (62 a. C.), col fine di intrattenersi con la moglie di questi Pompea. Giulio Cesare non si costituì in giudizio contro Clodio, dichiarando comunque Pompea (opportunisticamente) innocente, e purtuttavia la ripudiò.

Cicerone dopo l’esilio perse un po’ di presenzialismo politico pur avendo ancora molta presa sul pubblico. In senato ricatturò l’attenzione con la De provinciis consularibus (56 a.C.), in cui l’Arpinate reclamava per Cesare, proconsole, la riconferma, contrariamente alle regole, dell’imperium nelle Gallie. Una posizione che il famoso oratore pare abbia assunto prima ancora delle esigenze militari, per tentare di tenere lontano dall’Urbe il futuro dittatore di Roma. Intanto, provò invano di persuadere gli ottimati (aristocratici conservatori), a non inimicarsi Pompeo al punto da indurlo ad accordarsi con Cesare. Con l'orazione De provinciis consularibus, Cicerone tentò di dimostrare, con alcuni attenti passaggi oratori, di non essere nemico di Cesare e di giustificare la sua richiesta di proroga del comando militare con le necessità dell’impero.

Un periodo di riflessione consentì all’Arpinate la stesura del De oratore e il De republica. La prima opera, scritta tra il 55 e il 54 a.C., è composta da tre libri che espongono le caratteristiche e le tecniche per essere un buon oratore, onde eccellere nell’attività forense ma anche in politica.

Il De re publica, opera in sei libri quasi totalmente perduti, fu scritta tra il 54 e il 51 a.C., si colloca nel periodo di forte crisi della res publica, ovvero quando i triunviri si erano impadroniti del potere e Cicerone era stato estromesso dalla vita pubblica. Argomento fondamentale oltre alla politica è quello filosofico, già trattato ampiamente da Platone e Aristotele. Presentato sotto forma di dialogo, nel De re publica, Cicerone esamina i vari assetti di governo monarchico, aristocratico e democratico, nonché i loro opposti cioè la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia.

Nel sesto libro descrive il politico ideale, il princeps, che svolge un ruolo a dir poco provvidenziale, elogiando nello specifico Publio Cornelio Scipione Emiliano (185-129 a.C.), ricordato come modello per eccellenza di princeps, il cui fare diceva, era adeguato a un uomo di governo.

Negli stessi anni, avveniva l’uccisione di Clodio da parte di Milone e il conseguente processo; Cicerone assunse la difesa di Milone pronunciando l’orazione Pro Milone.  Nel 51 a.C. fu mandato proconsole in Cilicia (Turchia meridionale), e quando fu di ritorno capì che di lì a poco ci sarebbe stata una guerra civile. In seguito alla battaglia di Farsalo del 48 a.C., Cicerone che dapprima si era schierato dalla parte di Pompeo, pensò bene di riaccostarsi a Cesare, tributandogli persino qualche elogio (nel Brutus e nella Pro Marcello).

Lo scoppio di una nuova guerra civile vide Cicerone ancora impegnato nell’elaborazione di una teoria “storiografica” tentando a sua volta di farsi scrivere una biografia storica da Lucceio. Fu questo il periodo più tormentato della vita di Cicerone, che oltre alle angustie della politica, dovette subire anche alcuni dispiaceri familiari: il divorzio dalla moglie Terenzia (47 a.C.), e la morte dell’amatissima figlia Tullia.

Le mestizie sfociarono in un senso di solitudine che lo indirizzarono verso altri studi filosofici. In seguito alla morte di Cesare (alle idi di marzo del 44 a.C.), Marco Antonio tentò di succedergli ma fu osteggiato da Cicerone che pronunciò contro di lui e con un qualche azzardo, le quattordici Filippiche. In seguito agli accordi intercorsi nella creazione del Secondo Triunvirato (43 a.C.), che vide coinvolti Ottaviano (erede e successore di Cesare), Marco Antonio e Antonio Lepido, l’Arpinate fu inserito nelle liste di proscrizione. Non rinunciò però a partecipare alla vita politica e per questo il 7 dicembre dello stesso anno fu assassinato nei pressi della sua villa a Formia.






[1] M.T.Cicerone ( a cura di  F. M .Bongiovanni), Milano ,1941, p. 5.

mercoledì 19 dicembre 2018

Storiografia Romana in breve... di MalKa

                                           

La storiografia romana ebbe a ricevere da parte degli storici moderni e soprattutto nell’Ottocento, una minore attenzione rispetto alla storiografia ellenica. Probabilmente questa differenza fu dovuta al fatto che la culla della civiltà era individuata nella Grecia, e quindi studiare gli aspetti storici ellenici significava risalire alle origini della civiltà occidentale o quantomeno mediterranea. D’altro canto, sulla storiografia romana pesava il pregiudizio che fosse una copia di quella ellenica, senza nessuna originalità narratoria. Ovviamente un impulso a rivalutare ancora di più, e pienamente la storia di Roma, ci giunge da pubblicazioni e studi sempre più importanti e anche recenti, ad opera di studiosi che hanno avuto l’intuizione di dedicarsi a ogni genere di riscontro del materiale recuperato, per mettere a punto un più attendibile mosaico della straordinaria storia dell’Urbe.

L’esigenza propagandistica dei Romani, che non volevano passare per un pericolo latente agli occhi dei Greci, onde garantirsene la neutralità, portò a controbattere le accuse dei Cartaginesi che lamentavano la violazione di alcuni trattati quale motivazione alla base della prima guerra Punica. Questa esigenza strategica-diplomatica, favorì la narrazione storica romana in lingua greca, ossia una lingua considerata universale, paragonabile all’inglese di oggi. Gli scritti in greco, infatti, erano accessibili facilmente alla classe colta e senatoria romana, in quanto molto spesso costoro avevano buona padronanza di questa lingua, tant’è che in molte biblioteche, tra cui quella afferente alla famosa Villa dei Papiri di Ercolano,  erano presenti molto spesso documenti e papiri in lingua greca. Tale scelta linguistica consentì di diffondere a una più ampia platea la storiografia Romana in ellenico, promuovendo la conoscenza dei fatti e dei personaggi dell'Urbe tra quelle che erano le élites intellettuali più importanti del Mediterraneo: così facendo si tentò di promuovere un'immagine diversa di Roma, rispetto a quella veicolata dai greci.

Nel mondo della Roma arcaica i primi elementi che vengono posti alle origini del racconto storiografico sono  le laudationes funebres, cioè gli elogi funebri, scritti e letti durante la commemorazione, che venivano poi riposti negli archivi delle famiglie generalmente benestanti. L’oratore incaricato dell’encomio funebre, dopo aver parlato del morto, rinvangava le imprese e i successi degli antenati. Così la fama degli uomini valorosi, continuamente rinnovata  e nel ricordo resa immortale e tramandata ai posteri, favoriva il concetto di gloria e di patria.  Quel che più conta, i giovani venivano incitati ad affrontare qualsiasi sacrificio in difesa della loro terra, per ottenere quei riconoscimenti pubblici anche a distanza di tempo e che spettano ai valorosi[1].

Nel mondo romano,  erano ritenute importanti anche le fonti epigrafiche, che erano iscrizioni (tituli) generalmente incise su un supporto rigido, non flessibile e duraturo nel tempo (lastre,ceppi, stele, pietre sepolcrali, colonne, ecc.) che hanno fornito elementi e riscontri molto importanti sui fatti e sulla vita dei Romani.
Per studiosi come Enrica Culasso Gastaldi: « La scrittura epigrafica interessa tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, e, proprio perché connessa all’intero campo dell’esperienza umana, sfugge a ogni tentativo di classificazione che abbia ambizione di sistematicità ». La raccolta più completa di materiale epigrafico in latino è sicuramente il Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), fondato da Mommsen nella seconda metà dell’Ottocento o anche la selezione di epigrafi latine curata da H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae (ILS), Berlin 1892-1916, rist. 1962, in 5 volumi.  Ci sono poi altre fonti come quelle dei grandi collegia e sodalitates, ovvero collegi religiosi ma anche sodalizi politici, economici, amicali, ruotanti intorno a figure politiche o aristocratiche che conservavano nei propri archivi molti documenti contenenti memorie dei fatti salienti verificatisi nell’ambito di ogni collegio. 

Alcuni di questi archivi erano di sicuro interesse, come quello dei pontefici, in quanto ricchi di elementi e riferimenti storicamente preziosi. Alla casta sacerdotale spettava di stabilire il calendario annuale, così come i Fasti consolari, e anche di riportare quelle cronache cittadine che avevano una certa rilevanza per la società romana. Inoltre, gli eventi più importanti trascritti dai pontefici massimi sulle tabulae dealbatae, venivano resi pubblici attraverso l’esposizione delle tavole fuori dalla sede della massima autorità religiosa, come una sorta di odierno manifesto pubblico finalizzato a tenere informato il popolo. L’intestazione delle tavole menzionava i consoli, i magistrati e poi i fatti salienti in patria e in guerra, per terra e per mare. Infatti Servio Auctus[2] scriveva: Così infatti venivano confezionati gli Annali: ogni anno il pontefice massimo aveva una tavola di legno sbiancata,nella quale scriveva per prima cosa i nomi dei consoli e degli altri magistrati; lì soleva annotare le imprese che meritavano di essere ricordate per terra e per mare giorno per giorno. Dalla diligenza del pontefice gli antichi trassero commentarii annui in ottanta libri e li chiamarono Annali Massimi dai pontefici massimi,dai quali erano fatti.

Nel 130 a. C. questi commentari annui furono raccolti negli Annales Maximi (80 libri), per iniziativa del potente pontefice massimo Mucio Scevola che, con questo accorpamento pose poi fine alla prassi dell’esposizione. La tradizione antica riconduceva all’archivio dei pontefici pure le leges regiae (deliberazioni adottate dall’assemblea dei patres) così come i libri e i commentarii, e le regole di quello che era il mos maiorum romano, cioè una raccolta ad oggetto consuetudini e comportamenti, alla base della pacifica e civile convivenza dei Romani fin dalle origini.
Le tavole dealbate riportavano cronologicamente gli avvenimenti più importanti; per questo motivo erano consultate dagli storiografi del tempo ma non erano molto amate da  Cicerone, per la loro aridità espositiva. L’Arpinate[3] così scrive: Erat enim historia nihil aliud nisi annalium confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum res omnis singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus referebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi, eique etiam nunc annales maximi nominantur. Hanc similitudinem scribendi multi secuti sunt, qui sine ullis ornamentis monumenta solum temporum, hominum, locorum gestarumque rerum reliquerunt. [« La storia non era infatti niente altro se non la compilazione degli annali; per questo motivo e perché si conservasse la memoria di ogni fatto pubblico, dall’inizio delle vicende Romane fino al pontificato massimo di P. Mucio Scevola, il pontefice massimo registrava tutti gli avvenimenti di ogni singolo anno trascrivendoli su di una tavola di legno imbiancata, che poneva davanti alla sua casa, affinchè il popolo potesse conoscerli; questi sono quelli che chiamiamo Annali Massimi. Questo modo di scrivere è stato imitato da molti, i quali, senza aggiungere al racconto alcun ornamento retorico, hanno lasciato solo il ricordo dei tempi, dei luoghi, delle imprese»].   
Gli Annales di cui parla Cicerone, prodotti dai pontefici, furono una normale evoluzione dei Fasti, redatti anch’essi dalle autorità religiose. Questi primi rilievi storici (V sec. a.C.), contribuirono alla formazione di una prima storiografia romana. Occorre dire che l’opera annalistica, cioè il trascrivere cronologicamente gli avvenimenti più importanti, oltre ad essere letterariamente una forma espositiva non avvincente, aveva il limite dell’impossibilità di correlare eventi che si svolgevano magari in momenti diversi. 
La decisione di Scevola di abolire questa tradizione affissoria delle tavole, aprì spazi nuovi a chi voleva cimentarsi nel racconto storico (annalisti), che assorbirono questa tradizione pontificia, incominciando però a intravedere altre formule di narrazione magari meno aride.  È importante per una lettura storica degli annali, tener presente la differenza e l’attendibilità delle notizie che venivano tramandate dai vari storici. Proprio per evitare la diffusione di notizie poco veritiere, molti storiografi ricorrevano e ancora oggi ricorrono alla consultazione e allo studio degli annali, valutandoli e comparandoli con altre fonti anche orali e teatrali ed epigrafiche, onde verificare l’attendibilità di un fatto o di una narrazione di interesse storico, attraverso il confronto critico dei testi e di ogni altra testimonianza che supportasse o smentisse o arricchisse la notizia presa in esame. Anche un semplice errore poteva essere ripetuto e tramandato proprio attraverso le fonti primarie. Da questo punto di vista e anche a dimostrazione che la storia continua ad essere argomento di discussione e rivisitazione storica, occorre ricordare che l’archeologia ci consegna di tanto in tanto documenti di grande importanza che si rinvengono nei tanti siti archeologici disseminati nel mondo. Nel merito, fu particolarmente importante la scoperta di Ossirinco, località dell’alto Egitto: qui, sul finire del XIX secolo in una discarica furono rinvenuti manoscritti e papiri in lingua greca e latina, riportanti fonti dal I al VI secolo dopo Cristo...

Tucidide fu tra i primi innovatori a scrivere una memorabile storia della guerra del Peloponneso, in una forma nuova definita monografia. La stesura monografica, diversamente dagli annali, consentiva di trattare un argomento, una vicenda, da tutti i punti di vista, con dissertazioni che potevano largheggiare sulle cause, sui precedenti, sui protagonisti, sui risvolti e sulle conseguenze di un evento importante che necessitava di essere trattato in un modo esaustivo. Ecco allora che, con questo passaggio di stile, il racconto storico entrerà nella cultura romana e negli archivi storici anche nella forma monografica e poi biografica.  
La storiografia romana inizialmente come già abbiamo accennato, fu redatta in lingua greca, probabilmente per raggiungere un pubblico sempre più ampio; una necessità dovuta all’importante espansione di Roma nel Mediterraneo, che non doveva essere vista come una minaccia dagli altri popoli ma piuttosto come una risorsa. I successi militari Romani comportarono una maggiore penetrazione politica in quest’area, e quindi una maggiore importazione della cultura ellenica nell’Urbe, che ad ogni modo non ha mai prevalso sugli usi e sulla lingua latina. Questa ammirazione per il mondo greco pervase soprattutto le classi aristocratiche con importanti manifestazioni di simpatia filoellenica, alla base di pregevoli iniziative come la costituzione del circolo degli Scipione. In questo contesto è interessante segnalare che i Romani, dopo aver vinto velocemente a Pidna (160 a.C.) sui Macedoni di Perseo, spostarono nell’Urbe un importante prigioniero, Polibio che, con la sua notevole cultura, catturò l’attenzione di Scipione Emiliano, che lo graziò aggregandolo al cosiddetto “Circolo” culturale greco romano, attribuito alla loro iniziativa. 

Polibio, affascinato dal travolgente espansionismo romano, ne sposò la causa partecipando anche alla conquista di Numanzia al fianco del suo estimatore Scipione.  Polibio fu un eccellente storico e le sue vicissitudini personali lo portarono con competenza a scrivere le Storie, trattato sulle modalità di creazione dell’egemonia romana, e l’oggetto della sua attività di storico sarà proprio la sua nuova patria (Roma) con la sua irresistibile ascesa. Nelle Storie traspare ovunque l’ammirazione per Roma, come in questo passo[4] in cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri imperi precedenti: L’argomento che stiamo trattando è grande e genera meraviglia; quanto ciò sia vero,appare evidente soprattutto se alla dominazione romana paragoniamo accuratamente i più famosi imperi precedenti,dei quali gli storici hanno più diffusamente narrato le vicende (…). I Romani invece assoggettarono quasi tutta la terra abitata,e instaurarono una supremazia alla quale i contemporanei non poterono resistere,insuperabile per i posteri (…).

Tra gli iniziatori della storiografia romana, una menzione particolare spetta a Timeo di Tauromenio (356 a.C. – 260 a.C.), un siceliota che nelle sue narrazione storiche propose le storie dei Greci in Sicilia e di altre colonie elleniche in quell’Italia che stava diventando tutta romana. Rispetto ai Greci, che erano filocartaginesi, Timeo tenne in debita considerazione i Romani, magari non amandoli, probabilmente intuendo però l’importanza che Roma avrebbe avuto nel futuro a difesa della Sicilia che lui considerava sua  “patria”. Scrivendo abbastanza compiutamente della storia di Roma, rifacendosi prevalentemente a fonti storiche[5] ma senza alcuna partecipazione diretta ad eventi militari, i testi di Timeo ebbero più successo nell’Urbe che non ad Atene, città dove dovette riparare dopo l’esilio comminatogli dal tiranno Agatocle. È interessante l’uso da parte di questo storico della cronologia degli eventi basati sulla cadenza temporale delle Olimpiadi.

Il vero iniziatore della storiografia annalistica romana, tuttavia, rimane Fabio Pittore. Questo aristocratico scrisse la storia (Annales) dalla fondazione di Roma e fino al 207 a.C. consultando e trascrivendo non solo tutte le tabulae, ma accogliendo e pubblicando pure altro materiale d’interesse storico. L’opera di Pittore fu comunque stilata sulla falsariga degli annali dei pontefici. Certamente fu un lavoro ampio, largamente utilizzato da tutti gli storici, tra cui Polibio, che iniziò il suo racconto storico partendo da dove si era interrotto quello di Timeo. Quest’ultimo propose i suoi Annales in greco e solo successivamente furono tradotti in latino. Occorre precisare che non ebbe una grande fortuna, diremmo oggi, editoriale.  Le competenze così come le fonti storiografiche, fino a quel momento (123 a.C.) erano affidate prevalentemente all’annalistica pontificale: con gradualità passarono di mano, in favore di personaggi anche molto importanti, a cui toccò pure di ridiscutere in seguito tanto dell’impero quanto del suo decadentismo morale.  La decisione di Scevola consentì alla storiografia di slegarsi dai vincoli cronologici e ripetitivi della tradizione annalistica sacerdotale; del resto il pontefice, s’intuirà, difficilmente poteva mettere passione nelle tavole dealbate: per questo motivo, agli storici del momento si offrì l’occasione di dare, volendo, un taglio diverso alla cronaca storica antica e contemporanea, ricostruendola in una forma anche differente da quella meramente cronologica.

Occorre dire, in questo contesto, che lo stile annalistico aveva un limite procedurale che non consentiva di correlare fatti che si svolgevano in momenti diversi, e quindi presupponeva già una conoscenza storica degli eventi da parte del lettore. La stesura monografica invece, consentiva di trattare un argomento in modo molto più ampio e correlabile con altre vicende connesse.  Ecco allora che, con questo cambio delle consuetudini e delle competenze e dello stile storiografico, il racconto storico entrò nella società romana e non solo, anche in forma monografica e biografica, secondo canoni di lettura molto più agevoli e avvincenti. L’ingresso della tematica  monografica non ebbe particolari fortune nel mondo classico, se non in epoca tarda. L’ateniese Tucidide fu tra i primi assertori di questo stile, scrivendo della guerra epocale che si accese tra Ateniesi e Peloponnesiaci non disdegnando i discorsi diretti per dare senso ai momenti forti e dinamici dei suoi racconti. Tucidide ebbe l’idea molto innovativa di scegliere un solo argomento da trattare in forma storica, tra l’altro non nascondendo la volontà di volersi interessare solo degli aspetti politici e militari secondo un originale metodo storiografico scientifico a proposito delle fonti. Sulla stessa linea si trovarono Cesare, Tacito ma anche Sallustio: quest’ultimo potremmo definirlo e con tutte le differenze del caso, un imitatore di Tucidide. 

Un altro interessantissimo elemento che caratterizza la storiografia tucididea, è quello legato alla sua opera di storico rigoroso che scrive di una guerra in corso, quella del Peloponneso, che lo ha visto protagonista e poi redattore del conflitto, con delle affinità simili a un colto reporter di guerra. I processi economici e sociali e di costume che caratterizzavano a monte l’humus degli eventi bellici e anche politici, erano tutti elementi amati invece da Erodoto, storico delle guerre persiane, dallo stile semplice e scorrevole, considerato da Cicerone[6] come il padre della storia.

Celio Antipatro con il suo lavoro storico (Historiae) dedicato alla II guerra punica, incominciò a uscire anch’egli fuori dai canoni annalistici, cimentandosi col metodo monografico, con rigore e, altra novità, utilizzando una forma drammatizzante nel racconto degli avvenimenti. Sallustio con il Bellum Catilinae e il Bellum Iughurtinum, offrì  un esempio magistrale e  lampante della storia secondo questo ulteriore e innovativo stile monografico.

Appartiene al genere di trattazione storica monografica anche la biografia, un genere storico letterario nato in Grecia già nel V sec. a.C. Esso si propone di narrare la storia attraverso i protagonisti delle vicende con tutti gli aspetti salienti che vanno dalla morale alle gesta. In tarda età repubblicana annoveriamo tra i biografi Cornelio Nepote, un erudito del suo tempo, che scrisse una raccolta di biografie De Viris illustribus composta da sedici libri, oggi quasi tutti perduti. Interessanti le disquisizioni di Nepote a proposito del relativismo etico, honestum e turpe, oscillante nei giudizi a seconda delle mentalità greche e romane prese a confronto. L’introduzione[7] all’opera può dare la misura del pensiero: Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse eum commode scienterque tibiis cantassei. [«So bene, Attico, che saranno parecchi coloro i quali giudicheranno questo mio genere di scrittura storiografica leggero e indegno delle personalità di uomini illustri, quando vi leggeranno chi abbia insegnato a Epaminonda la musica o che vengono annoverate tra le sue qualità l’agilità nella danza e l’abilità nel suonare il flauto»]. Nepote temeva la critica per il suo arricchimento biografico su cose un po’ più frivole. Valori di differente interpretazione quindi, che d’altra parte riguardarono anche Cicerone che, pur amando l’arte, fece finta di non essere un esperto nella valutazione delle opere trafugate da Verre, perché l’amore per le opere artistiche era considerato per i Romani un segno di debolezza.

Sullo stesso tenore e in età imperiale, si distinse in questo genere Gaio Svetonio, archivista e bibliotecario sotto Traiano; scrisse il De viris illustribus decantando il pregio di alcuni personaggi famosi in varie discipline, con contenuti, secondo i critici, non sempre particolarmente interessanti per gli storici. Poi, scrisse il De vita Caesarum, in otto libri mutili dei capitoli iniziali: in essi si narrano le vicende e le biografie dei dodici  imperatori, Giulio Cesare (I libro), Augusto (II libro), Tiberio (III libro), Caligola (IV libro), Claudio (V libro), Nerone (VI libro) Otone, Galba e Vitellio (VII libro),Vespasiano ,Tito e Domiziano (VIII libro). Il genere biografico fu anche utilizzato da Plutarco con le sue Vite parallele, opera in cui si illustrano le differenze esistenti tra diversi personaggi storici: uno greco e uno romano, accostati fra loro per analogia; vaglierà quindi e tra gli altri, Cesare e Alessandro come Demostene e Cicerone.
Plutarco tra le altre cose ebbe il merito di aver diviso la storiografia dalla biografia, ponendo una distinzione fra la storia e la storia degli uomini. Il genere biografico ebbe pure una certa diffusione all’interno del cristianesimo con il racconto della vita dei santi.

All’inizio del primo secolo e sulla falsariga degli hypomnemata greci, incominciarono a prodursi pubblicazioni chiamate commentarii, una sorta di memoriali, in forma di appunti stilati da personaggi particolarmente in vista come Silla, Cesare, Agrippa e anche Augusto. Il commentario generalmente induce all’autobiografia o comunque alle gesta del narratore, e quindi non potrebbe essere considerato come una vera e propria opera storica letteraria, come nel caso di Silla. Cesare, da questo punto di vista però, rimane grande e inimitabile con i suoi De bello Gallico e il De bello civili. Nella prima opera, emerge certamente la volontà di Cesare di spiegare le varie decisioni che hanno caratterizzato le sue scelte politiche e militari. D’altro canto però, Cesare ha il pregio di riportare nei suoi compendi anche alcuni aspetti etnografici di sicuro interesse: temi questi ultimi, difficilmente richiamati da altri autori. Lo stile utilizzato possiamo classificarlo come misto, perché lo sviluppo è di taglio monografico alla tucididea, pragmatico alla Polibio, ma anche tradizionalmente annalistico: otto libri per otto anni di guerra. Ovviamente i diari di Cesare furono oggetto di revisione da parte dell’autore, onde offrire un prodotto finale scorrevole e interessante.

Come abbiamo visto, il modo di produrre storiografia è senz’altro vario e si concentra innanzitutto sulla necessità di ricercare fonti attendibili, a prescindere che siano di tradizione orale o scritta; oppure che siano riporti di scrittura su supporti rigidi: l’importante è che le fonti vengano poi idealmente sovrapposte e analizzate in senso anche molto critico, secondo criteri efficaci per individuare e distinguere ciò che è vero dal falso, e il probabile dall’improbabile. 

Il confronto tra i vari annali si dimostrò già un proficuo sistema per la ricerca della verità storica, anche se non  sempre si è raggiunto questo obiettivo fino in fondo, perché col trascorrere dei secoli si sono perse molte testimonianze. Occorre dire però, che la ricerca archeologica offre e potrà ulteriormente offrire, con le scoperte che si succedono con una certa frequenza, un notevole contributo per dissipare questioni e dubbi ancora in sospeso.

Un maggiore vulnus lo si è evidenziato nella trattazione degli eventi ovviamente arcaici, dove a volte le leggende si confondono con i fatti reali, soprattutto se ad oggetto della ricerca storica è posto un popolo, quello Romano, che vanta all’origine della sua fondazione (753 a. C.), diverse teorie che affondano decisamente nel mitico. Maneggiare le fonti con cautela e imparzialità è il compito primo di uno storico, tra l’altro come necessità di un modus operandi più volte richiamato da Cicerone, che in più passaggi oratori si è soffermato sulla importanza di riportare la verità nella narrazione storica dei fatti: affermazione che avrebbe avuto una maggiore efficacia senza la lettera a Lucceio, i cui contenuti verranno più avanti discussi.




[1]  Polyb., VI, 53-54.
[2] Serv.( auctus), Comm. ad Vergilii Aeneida, I, 373.
[3] Cic., De Orat., II, 52-53.
[4] Polyb., I, 2, 2-7.
[5]  Cfr. Polyb., II, 27.
[6] Cic., Leg., I, 1, 5.
[7] Nep., Praef. ,I, 1.

giovedì 22 novembre 2018

Storia di Roma: note. di MalKa






In questo elaborato suddiviso in più articoli, viene rappresentato il panorama storiografico ad oggetto la storia romana nell’ultimo secolo della Res publica. Avremo quindi modo di affrontare il discorso sulla genesi della storiografia romana, accennando successivamente alle varie tipologie delle fonti utilizzate dagli storici di quel periodo, ma anche dagli intellettuali che in tale disciplina si cimentarono nel corso dei secoli. 
Proporremo poi alcune biografie di storici romani tardo repubblicani, che giudichiamo autori fondamentali per comprendere il periodo in esame, consegnatoci con uno stile narrativo  fatto di opere indiscutibilmente  capisaldi della storiografia Romana. Abbiamo inoltre analizzato alcune opere che lasciano intendere gli stimoli e le differenze che hanno portato i suddetti autori a parlare di formule e di contenuti secondo le varie tipologie narrative del tempo.

Di Marco Tullio Cicerone abbiamo esaminato la famosa lettera a Lucceio, inquadrabile come una sorta d’incitamento a narrare la storia secondo il genere definito monografico, ritenuto dall’Arpinate l’unico modo per dare enfasi ad argomenti, come la congiura di Catilina, che dovevano catturare anche l’attenzione dei lettori meno avvezzi agli studi, alla stregua di quanto succede nelle contese politiche più accese o nei teatri. Cicerone, ricordiamolo, era un personaggio ambizioso, imbevuto di cultura ellenica ed esperto di retorica politica, forense e letteraria, ma non era uno storico nel senso stretto del termine.
La lettera a Lucceio presenta pure il pregio di lasciare intendere il profilo dell’Arpinate, e la sua ferma volontà di entrare nella storia grazie a quella che considera la sua "salvifica" attività di console, prima ancora di quella elegante  e imbattibile di oratore forense.
Successivamente andremo ad approfondire anche il profilo di Gaio Sallustio Crispo, storico e politico, esponendo le tecniche del suo genere monografico, reso evidente dalle famose monografie De  Catilinae  coniurationeBellum Iugurthinum
Sallustio utilizza l’impostazione monografica (che è appunto quasi una novità nella storiografia romana), per evidenziare la sua attenzione verso certi avvenimenti fondamentali per la storia dell’Urbe, come ad esempio la congiura ordita da Lucio Sergio Catilina nel 63 a.C.  Tra l’altro, questo testo fu concepito da Sallustio poco dopo la morte di Cicerone. Dello stesso autore ricordiamo la Guerra Giugurtina, che narra il conflitto combattuto tra il 111 e il 105 a.C. e che oppose Roma a Giugurta, re di Numidia.

Non poteva mancare una particolare attenzione a Tito Livio, lo storico più importante dell’età tardo-repubblicana augustea, autore della monumentale opera Ab Urbe condita, che grazie al ritorno alla tradizionale forma annalistica, quasi una specie di “contrapposizione metodologica” con il genere storiografico basato sulla monografia, costruisce la sua storia di Roma che sarà particolarmente importante quale riferimento fondamentale per tutti gli storici a venire. 
Nei 142 (per alcuni 150) libri divisi in deche e pentadi, Livio espone la storia del popolo Romano dalla leggendaria fondazione dell’Urbe e fino al 9 a.C. o fino al 9 d.C. Sebbene gran parte dell’opera non  ci sia pervenuta perché andata dispersa nei secoli, è stato possibile risalire al contenuto dei libri attraverso le Periochae, dei sintetici riassunti dei singoli libri, elaborati a loro volta da precedenti epitomi risalenti al III e al IV secolo  d.C. In questo lavoro, la premessa e anche le conclusioni possono riallacciarsi al pensiero ciceroniano[1]: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis. [«La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità»]. 

La riflessione è anche questa, cioè, la narrazione cronologica e precisa degli avvenimenti ha la sua importanza, così come il racconto delle passioni che generarono quegli stessi accadimenti, secondo degli unicum che non possono essere disgiunti. Occorre evidenziare che mentre Cicerone e Sallustio provenivano da esperienze senatoriali con un certo intrinseco presenzialismo nella politica attiva, in Livio tutto questo protagonismo politico non c’era (anche se, nella critica, Livio viene definito uno storico di “ tiepida “ opposizione). Lo stile storiografico di Livio non era così puntuale sull’utilizzo di fonti come quello tucidideo; il suo obiettivo però, era quello di consegnare ai posteri una storia gradevole e moralmente efficace con la speranza di riportare i costumi romani e gli ideali di quel popolo, a suo dire amato dagli dei, a quei livelli leggendari del passato che fecero grande l’Urbe e quindi l’Impero.
    Prima Parte
                          Storia e storiografia romana tra il I e il III secolo a.C.
                                                         
Il presupposto fondamentale per discutere di storiografia parte da un importante concetto di Benedetto Croce[2]: la storia come la filosofia non ha un inizio storico, ma solo ideale e metafisico. Il pensiero che probabilmente il noto filosofo intendeva chiarire, è che c’è sempre storia nelle attività dell’uomo: cambia magari il supporto e il linguaggio per rappresentarla e tramandarla, ma una cotale esigenza è insita nell’animo umano. Probabilmente anche le pitture e le incisioni rupestri volevano tramandare qualcosa ai posteri; la scrittura poi, ha cambiato totalmente le cose, offrendo lo strumento ideale per trasmettere la narrazione dei fatti alle generazioni future, utilizzando supporti più stabili e accessibili e duraturi nel tempo; dal papiro si è passati alla carta e poi al silicio che in microspazi racchiude intere enciclopedie facilmente accessibili e duplicabili da un semplice computer.

Croce propone anche una riflessione su quelle che lui chiama “storie di antiquari” e “storie di storici” traendo spunto evidentemente da un passo tratto dalle Storie di Polibio da Megalopoli[3] dove si mette in evidenza che  comporre la storia sui libri è  semplice: basta permanere per un po’ di tempo in una città provvista di biblioteche; ma scrivere la vera storia richiede conoscenza dei luoghi e dei popoli e degli affari politici e militari di cui si parla. Una verità inconfutabile che si palesa soprattutto quando si presenta la necessità storiografica di affondare le ricerche in molte direzioni, finanche nelle lontane pieghe del tempo.
Polibio, a tal proposito, criticò Timeo, perchè asseriva che questi scriveva di storia senza fatica, cioè senza girare fisicamente per quei luoghi e campi di battaglia dove la storia si era di fatto compiuta. Secondo Polibio, la storia procederà bene quando gli uomini vi si dedicheranno non come ora, sbadatamente, ma assiduamente e per tutta la vita (diremmo alla Tito Livio). Infatti scrive[4]Mi sentirei di dire che la storia sarà ben scritta solo quando se ne occuperanno gli uomini d’azione - ma non come fanno ora, considerandola cosa secondaria,ma ritenendo che essa sia una delle imprese più necessarie e più nobili che loro possa toccare di compiere -,e ad essa si applicheranno con diligenza per tutta la vita.

Uno degli elementi fondamentali della iniziale storiografia romana, sono stati i tentativi di assegnare un'origine ellenica all'Urbe, perchè la sua nascita veniva imputata all'opera colonizzatrice di elleni di tutto rispetto come l’ecista Enea e l’itacense Ulisse, ed ancora la troiana Rhome. Se la nascita dell’Urbe era stata all'origine promossa da un manipolo di Greci in fuga, Roma doveva quindi considerarsi Polis Hellenis[5] più che Polis Tirrenica, in ragione della nazionalità dei fondatori. 
Dionigi di Alicarnasso nella sua Storia arcaica, contribuì a veicolare il messaggio della grecità di Roma, marginalizzando di molto l’influenza del popolo etrusco ben radicalizzato in Toscana e nel Lazio e fino a Pontecagnano (Salerno), su quello che sarebbe poi stata in futuro l'Urbe.

Se da un lato è indubbia l’importanza di alcune colonie greche che portarono in dote la cultura ellenica insediandosi soprattutto in terra di Sicilia, ma anche su Megaride e  Ischia, e poi Cuma ad opera degli Eubei, occorre dire che tali frange straniere non offuscarono la lingua latina arcaica, così come gli influssi ellenici non condizionarono in modo significativo le tradizioni e la cultura degli Etruschi, dei Sanniti, dei Volsci e di altre genti italiche con cui evidentemente avevano discreti rapporti commerciali radicati nel tempo. Altro discorso è la lingua greca che trovò ampia sponda in Italia, probabilmente per necessità culturali e diplomatiche soprattutto dell'intellighenzia Romana, il cui desiderio era quello di dare ampia diffusione  dei fatti che caratterizzavano l'Urbe, in tutte quelle terre che avevano sbocco sul Mediterraneo.

La storiografia repubblicana trova la sua genesi nella necessità dei membri della gentes di tramandare ai posteri, oltre al valore della loro patria repubblicana, anche le virtù dei propri antenati a cui si doveva la gloria dell’Urbe, ampiamente riconosciuta come super potenza e non solo mediterranea. Esaltare gesta e genti portava spesso a denigrarne altre, in una sorta di competizione tra le grandeur delle famiglie più in vista. Una certa permeabilità poi, aveva portato i Romani a far coincidere la politica con la religione, soprattutto quando si trattava di descrivere le origini di Roma. Le storie delle vicende romane dovevano evidenziare alcuni principi di fondo, come ad esempio la lealtà, cioè il rispetto per la parola data, come per le tregue e gli accordi; e poi ricorrere agli auspicia e aborrire guerre non giuste, tant’è che le vittorie di Annibale passarono descrittivamente come frutto dell’inganno.

Un altro elemento che caratterizza la storiografia Romana è costituito dalle narrazioni che sovente dovevano partire dal carattere divino della fondazione dell’Urbe, contrariamente alla storiografia greca invece,  basata prevalentemente sul passato recente e sulla tecnica descrittiva molto simile alle odierne interviste che si fanno ai testimoni di eventi drammatici e violenti come ad esempio le guerre. 
I Romani avevano la necessità di liberarsi dalla persistente mentalità ellenica che li voleva “barbari”, e quindi tentavano, attraverso l’illustrazione della loro secolare storia, di stimolare una sorta di benevolenza che li elevasse nel pensiero comune a rango di civiltà evoluta. Raccontare una storia secolare dalle origini, in ogni caso, diede corso a racconti che confondevano il piano narrativo tra il mitico e quello leggendario, con non poche sviste e incongruenze. Tito Livio nella Praefatio[6] precisa che: Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di nobilitare l'origine delle città mescolando l'umano col divino; ma di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto.  

Livio volle delineare immediatamente il carattere prettamente storico della sua opera: purtuttavia nei primi volumi narra la fondazione di Roma da parte di Romolo esaltando le origine mitiche dell’Urbe. Il modello monografico probabilmente si presentò per gli storici come necessità di offrire un racconto storico maggiormente attendibile e più contemporaneo e svincolato dalla storia arcaica.
Anche il pensiero di Cicerone ci sembra corrispondere a una necessità di scrivere di storia recente piuttosto che indagare il periodo più antico che, probabilmente, non lo appassionava moltissimo. Nelle Tusculanae, l’Arpinate dichiara che l’antica cultura romana è finita così com’è finita l’antica cultura greca, in quanto entrambe, a suo dire, rispondevano ad esigenze frutto di contesti storici oramai superati. Attenersi alla verità è la naturale base epistemologica della storiografia; infatti, non si può osar dire alcuna menzogna, e non si può osar non dire una cosa vera; lo storico, inoltre, non deve essere né accusatore e né giudice del passato, e deve sempre adoperarsi per delineare nei suoi scritti un quadro attendibile e aderente alla verità dei fatti, che non possono essere giudicati fuori dai contesti e secondo valori suggeriti dall’attualità.
Dalle Storie di Polibio da Megalopoli[7], si legge : Se si elimina  dalla storia la verità, ciò che di lei  rimane diviene  una narrazione di nessun conto. Due pertanto dicemmo essere le maniere di falsità: l’una che procede da ignoranza, l’altra da elezione. Ed a quelli che per ignoranza deviano dalla verità convenirsi perdonare, ma a coloro che il fanno per elezione doversi serbar inimicizia implacabile. In altre parole, era ritenuta una vera profanazione alterare la verità magari passando per vigliacco un eroe o per grande statista un corrotto personaggio. Tutti elementi che forse spiegano perché Cicerone, preoccupato, tentò di farsi scrivere la sua personale biografia storica dall’amico letterato Lucceio, quando era ancora in vita onde poterla leggere (e correggerla?) in anticipo sui tempi.                
                      

[1] Cic., De orat., II, 9, 36.
[2] B.Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, 1920 ,p 165.
[3] Polyb., II, 27.
[4] Polyb., XII, 28 3-5.
[5] Vanotti G., Roma polis hellenis, in “MEFRA”,1999, pp 217-255.
[6] Liv., Praefatio, 21-31.
[7] Polyb.,V, 38-41.